Canto XXVII Inferno – (vv 1-30) – Guido da Montefeltro

Testo e commento del Canto XXVII dell’Inferno (versi 1-30)-Guido da Montefeltro

Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta, 3

quand’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia. 6

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima, 9

mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto; 12

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame. 15

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio, 18

udimmo dire: "O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo "Istra ten va, più non t’adizzo", 21

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! 24

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco, 27

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra". 30



Riprendendo dalla fine del Canto precedente, Dante scrive come la fiamma di Ulisse si era già acquietata, dopo essersi mossa come sottovento per poter profferire parola, e se ne era andata, licenziata da Virgilio. Ecco che già un’altra le viene dietro e richiama l’attenzione dei due poeti a causa di un suono confuso che ne usciva dalla cima: parafrasando, esso ricorda a Dante quello del bue siciliano che muggì la prima volta con il pianto del suo artefice – e fu giusto così – tale che, sebbene esso fosse di rame, parve un bue reale. La colta perifrasi si riferisce a Perillo, ateniese, che aveva costruito per il tiranno di Agrigento Falaride un sistema per trarre divertimento dai supplizi delle persone che andavano a morire: un bue di rame poteva ospitare una persona viva e dopo che esso veniva arroventato sotto da una pira, un particolare congegno nella gola dell’animale di metallo faceva apparire le grida dei suppliziati come muggiti. Il tiranno per ringraziamento fece testare la diabolica invenzione proprio all’artefice stesso, e ciò secondo Ovidio fu cosa giusta (Ars amatoria I 655-656), dal quale riprese Dante. In questo caso l’Alighieri voleva solo indicare che il suono proveniva dalla punta della fiamma in maniera sinistra, non già come da bocca umana che profferisse parola. Poi però, quando la “lingua” di fuoco (nel gioco “lingua del dannato”, “lingua di fuco” sta tutto il contrappasso di questi consiglieri fraudolenti) dà un certo guizzo sulla punta, allora i suoni diventano parole che si possono udire. Da notare anche il parallelismo tra il bue arroventato che racchiude i corpi e la fiamma infernale che racchiude le anime.
L’anima dannata ha sentito parlare Virgilio in lombardo (“Istra ten va, più non t’adizzo”, usato per congedarsi da Ulisse) e gli chiede di restare un po’ a parlare con lui, poiché a lui farebbe piacere, pur se deve stare lì fermo, ardente!
Il dannato, verrà detto tra poco, è il condottiero Guido da Montefeltro, un personaggio contemporaneo a Dante, dopo l’episodio con Ulisse dell’antichità classica. Guido inizia a parlare chiedendo innanzitutto notizie della Romagna (sappiamo dal canto di Farinata degli Uberti che i dannati vedono il futuro ma non il presente), la dolce terra ricordata con affetto e melanconia. Poi dà una prima breve presentazione di sé come nativo del Montefeltro, regione tra la Valmarecchia e il monte della sorgente del Tevere (Monte Fumaiolo).

[bibl] Inferno – Canto ventisettesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventisettesimo&oldid=38301009 (in data 17 novembre 2011).[/bibl].

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