Canto XXII Inferno- (vv 31-90) – Ciampolo di Navarra
Testo e commento del Canto XXI dell’Inferno (versi 31-90)-Ciampolo di Navarra
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia, uno aspettar così, com’elli ’ncontra ch’una rana rimane e l’altra spiccia; 33 e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le ’mpegolate chiome e trassel sù, che mi parve una lontra. 36 I’ sapea già di tutti quanti ’l nome, sì li notai quando fuorono eletti, e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come. 39 "O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!", gridavan tutti insieme i maladetti. 42 E io: "Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi". 45 Lo duca mio li s’accostò allato; domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose: "I’ fui del regno di Navarra nato. 48 Mia madre a servo d’un segnor mi puose, che m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose. 51 Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria, di ch’io rendo ragione in questo caldo". 54 E Cirïatto, a cui di bocca uscia d’ogne parte una sanna come a porco, li fé sentir come l’una sdruscia. 57 Tra male gatte era venuto ’l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: "State in là, mentr’io lo ’nforco". 60 E al maestro mio volse la faccia; "Domanda", disse, "ancor, se più disii saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia". 63 Lo duca dunque: "Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?". E quelli: "I’ mi partii, 66 poco è, da un che fu di là vicino. Così foss’io ancor con lui coperto, ch’i’ non temerei unghia né uncino!". 69 E Libicocco "Troppo avem sofferto", disse; e preseli ’l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto. 72 Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde ’l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio. 75 Quand’elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch’ancor mirava sua ferita, domandò ’l duca mio sanza dimoro: 78 "Chi fu colui da cui mala partita di’ che facesti per venire a proda?". Ed ei rispuose: "Fu frate Gomita, 81 quel di Gallura, vasel d’ogne froda, ch’ebbe i nemici di suo donno in mano, e fé sì lor, che ciascun se ne loda. 84 Danar si tolse e lasciolli di piano, sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano. 87 Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche. 90
I barattieri quindi appena vedono l’ombra dei diavoli si rituffano, ma uno di essi (e Dante nel ripensarci mentre scrive se ne raccapriccia ancora), sempre come talvolta fanno le rane, è troppo lento a re-immergersi e viene afferrato da Graffiacane, il diavolo più vicino, che lo prende per i capelli impegolati con l’uncino (con un gesto che oggi potrebbe ricordare quello degli spaghetti con la forchetta) e, tirandolo sù come una lontra (nero, lucido per la pece sgrondante) si appresta a scuoiarlo.
Dante, nella sua estrema precisione, premette che dei diavoli si ricorda già tutti i nomi per averli sentiti chiamare a uno a uno e per averli sentiti discorrere nella marcia fin lì. I diavoli stanno gridando “O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”, ma Virgilio, su richiesta di Dante, chiede che prima il dannato dica chi sia presentandosi.
Egli risponde che è nativo della Navarra e che sua madre lo mise al servizio di un Signore, essendo suo padre già morto per aver distrutto sé e le sue cose (suicida e scialacquatore quindi); entrò poi nella famiglia (intesa qui come insieme dei servi) del re Tebaldo (Thibaut II di Navarra o Thibaut V di Champagne) presso di cui compie il peccato di baratteria per il quale è punito. I commentatori antichi diedero a questa figura il nome di Ciampòlo di Navarra (forse una contrazione di Giampaolo o del francese Jean Paul), ma le notizie storiche su di esso sono limitate al solo testo dantesco.
Canto 22, Giovanni Stradano, 1587
Ciriatto allora, il diavolo che somiglia a un porco nel nome e di fatto, fece sentire al dannato come una delle sue zanne, che gli uscivano ai due lati della bocca, ferisse, strusciandola però solamente (“sdruscia”). Dante non è impaurito, ma forse incuriosito da questo sorco finito tra male gatte. Barbariccia, che è il “sergente” di questa truppa, allora “il chiuse con le braccia”: chi? Ciriatto o Ciampolo? Sembra più probabile il dannato; e qual è il gesto esattamente? Se dalla scena successiva sembra improbabile che lo tenesse abbracciato (egli infatti si divincolerà) forse allora si potrebbe intendere come egli si sia solo interposto tra i due per contenere i diavoli, magari allargando le braccia, essendo il verbo “chiudere” anche sinonimo di “recintare”. Sempre Barbariccia dice poi”State in là, mentr’io lo ‘nforco” cioè vorrebbe escludere gli altri diavoli dal piacere della tortura del dannato, anche se qualcuno ci ha letto “inforcare” quale “montare a cavallo” (inforcar li arcioni, come in Pd. VI, 99).
Dante e Virgilio sembrano però tifare una volta tanto per il dannato (una concessione del tutto straordinaria all’ineluttabilità del giudizio divino che commistiona le pene giuste ai dannati, in linea però con l’atipicità di questo brano), quindi gli rivolgono un’altra domanda ritardando il supplizio: “de li altri rii / conosci tu alcun che sia latino (qui sinonimo di italiano)/ sotto la pece?”. Il dannato risponde che lì accanto a lui c’era fino a poco fa un “vicino” dell’Italia, un sardo, e che tanto vorrebbe tornare accanto a lui sotto la pece senza paura né di unghia né di uncino.
Nel ritmo incalzante dell’episodio, il discorso di Ciampòlo è di nuovo interrotto dai diavoli. Libicocco, che freme di impazienza per usare l’uncino profferisce laconicamente “Troppo avem sofferto!” e gli stacca un pezzo di braccio con l’arpione. Draghignazzo allora alla vista del sangue si esalta e si avventa sulle gambe del poveretto, ma basta un’occhiataccia del loro capo (il decurio) per fermarli. Le ferite però non sono orride e non danno dolore al malcapitato (si pensi per esempio il raccapriccio di Dante in altre occasioni come con gli scialacquatori o i seminatori di discordie per sottolineare anche qui il tono scanzonato e grottesco), il quale le guarda, ma riprende subito a parlare, spronato da Virgilio.
Il dannato di cui parlava poco fa è Frate Gomita, gallurese, ricettacolo (vasel) di ogni frode, che trattò i nemici del suo signore (suo donno, ricalcato sul sardo che usa come articolo determinativo “su”) in maniera che ognuno ne ebbe profitto (lui e loro, intende: prese i soldi e li lasciò liberi; ma anche negli altri offici fu un barattiere, “non picciol, ma sovrano”. Con lui c’è Michele Zanche del Logudoro, e le loro due lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna.
[bibl]Inferno – Canto ventiduesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventiduesimo&oldid=40809762 (in data 14 novembre 2011).[/bibl]