Canto XXIX Inferno – (vv 121-139) – Capocchio da Siena e la vanità dei senesi

Testo e commento del Canto XXIX dell’Inferno (versi 121-139)- Capocchio da Siena e la vanità dei senesi

E io dissi al poeta: "Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d'assai!". 123

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: "Tra’ mene Stricca
che seppe far le temperate spese, 126

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca; 129

e tra’ ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse. 132

Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda: 135

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio, 138

com’io fui di natura buona scimia".


Dante prende l’occasione per lamentarsi con Virgilio se esista mai gente al mondo “sì vana come la senese”, ben peggiori dei francesi, che pure non dovevano godere di buona fama. Quella di Dante non è una vera e propria invettiva sulla città (come nei casi di Firenze, Pistoia e poi Pisa), ma piuttosto una polemica quasi da pettegolezzo, contro la vana megalomania di alcuni dei suoi cittadini.
Il secondo “lebbroso” (in realtà scabbioso) prese la palla al balzo dicendo ironicamente di non contare certo Stricca (Stricca di Giovanni de’ Salimbeni?), tanto oculato spenditore, né suo fratello Niccolò che scoprì l’uso dei chiodi di garofano in cucina e l’appiccò all'”orto” della vana Siena. Questi accenni sono ironici come quello di Bonturo Dati a proposito dei barattieri di Lucca, e evidenziano il tenore comico del canto. E il dannato prosegue dicendo di non indicare nemmeno la brigata (la cosiddetta “brigata spendereccia”) che scialacquò la vigna e i poderi di Caccianemico d’Asciano e nella quale diede prova di oculato senno (!) l’Abbagliato (soprannome di Bartolomeo dei Folcacchieri). Siena all’epoca in cui Dante scriveva era una delle città più ricche d’Europa, probabilmente più di Firenze stessa, e destavano molto scandalo gli sperperi che alcuni ricchissimi cittadini potevano permettersi. Non è un caso che uno dei due peccatori citati tra gli scialacquatori a tempo debito (Inferno XIII, vv. 118-121) fosse un senese, Lano da Siena.
A questo punto il secondo dannato si presenta come Capocchio, un personaggio sul quale si hanno scarsissime informazioni, e che lui stesso si definisce come falsario di metalli con l’alchimia.
« “E te dee ricordar, se ben t’adocchio,
com’io fui di natura buona scimia”. »
(vv. 138-139)
In chiusura di Canto poi ricorda che, se ha ben riconosciuto Dante, lui dovrebbe avere a mente come fu “scimmia” per natura (la scimmia era l’animale imitatore per eccellenza, che imita l’uomo “scimmiottandolo”, appunto) o della natura (più probabilmente la seconda opzione, per similitudine con numerosi altri passi nell’italiano antico nel quale “esser scimmia di” era una specie di frase fatta).

[/bibl] Inferno – Canto ventinovesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventinovesimo&oldid=38300987 (in data 18 novembre 2011).[/bibl].

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