Canto XXIX Inferno – (vv 37-72) – La decima bolgia dei falsari

Testo e commento del Canto XXIX dell’Inferno (versi 37-72)- La decima bolgia dei falsari

Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo. 39

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra, 42

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’io li orecchi con le man copersi. 45

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali 48

fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre. 51

Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva 54

giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra. 57

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l’aere sì pien di malizia, 60

che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo, 63

si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche. 66

Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle. 69

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone. 72


Parlando così con Virgilio, Dante arriva all’argine della prossima bolgia e la prima impressione che ne riceve è uditiva: lamenti fortissimi che colpiscono (saettano) la pietà come frecce dalle punte di ferro, tanto che Dante deve coprirsi le orecchie con le mani.
Di nuovo Dante fa una similitudine ipotetica (dopo quella di tutti mutilati delle guerre del Mezzogiorno in Inf. XXVIII 7-21) cioè per una somma di immagini che pur addizionate non sarebbero sufficienti a rappresentare l’orrore della bolgia: Dante cita gli ospedali di Valdichiana, di Sardegna e di Maremma nei mesi estivi, zone infestate dalla malaria, la cui puzza sommata non era altrettanta a quella infernale. Mentre scende la ripa la vista diventa nitida e può discernere i malati che sono i falsador puniti dall'”infallibil giustizia di Dio. Per descrivere il dato visivo Dante fa un’altra similitudine, questa volta presa dal repertorio classico (la continua commistione tra personaggi, figure, temi e stili del mondo classico, mitologico, biblico e contemporaneo saranno la caratteristica più spiccata di questa bolgia): come nelle Metamorfosi di Ovidio (qui citate spesso e quasi a menadito), Dante rievoca la pestilenza di Egina, che colpì tutto il popolo dell’isola greca, compresi gli animali, tranne il re che chiese poi a Giove di trasformare le formiche in uomini (i cosiddetti Mirmidoni), così in quella bolgia vi erano mucchi di ammalati ovunque.
Vi erano infatti persone l’una accasciata sull’altra, chi sul ventre, chi sulle spalle e chi carponi a terra. Non si potevano alzare e i due poeti procedevano tra di loro senza parlare.
Sul contrappasso di questa bolgia non si è riusciti a trovare una precisa corrispondenza univoca: la più accettata è che come i falsari alterarono la materia o le loro sembianze, così adesso sono alterati dalle malattie.

[/bibl] Inferno – Canto ventinovesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventinovesimo&oldid=38300987 (in data 18 novembre 2011).[/bibl].

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