Canto XIII – (vv 130-151) – Il suicida fiorentino
Testo e commento del Canto XIII dell’Inferno (versi 130-151) – Il suicida fiorentino
Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano. 132 "O Iacopo", dicea, "da Santo Andrea, che t’è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?". 135 Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo, disse: "Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?". 138 Ed elli a noi: "O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c’ ha le mie fronde sì da me disgiunte, 141 raccoglietele al piè del tristo cesto. I’ fui de la città che nel Batista mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo 144 sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che ’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista, 147 que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ’l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. 150 Io fei gibetto a me de le mie case".
Dopo la parentesi della caccia infernale, la scena torna silenziosa e meditativa: Virgilio indica a Dante il cespuglio dove si era riparato Jacopo e questi lo vede tutto piangente per le numerose ferite riportate durante l’assalto. Esso si lamenta contro Jacopo da Sant’Andrea (“Che t’è giovato di me far schermo? / Che colpa ho io della tua vita rea?”, vv. 134-135), poi Virgilio gli chiede di parlare un po’ di sé.
Il cespuglio prega prima malinconicamente i due pellegrini di raccogliere le sue fronde e metterle ai suoi piedi. Poi inizia a dire che è fiorentino, non nominando la città ma compiendo una lunga perifrasi: dice che era della città che cambiò il primo patrono in San Giovanni Battista, riferendosi alla diffusa leggenda che l’antica Florentia romana fosse una città dedicata al dio Marte. Per questo il primo padrone, dio della guerra e della discordia, continua a perseguitarla “con la sua arte”, rendendola sempre triste.”Per fortuna che almeno resti un frammento di statua colloco al passaggio sull’Arno, altrimenti coloro che la ricostruirono dopo la distruzione di Attila avrebbero lavorato invano.”Il cespuglio si sta riferendo alla statua che i fiorentini credevano raffigurasse Marte e che si trovava alla testa dell’antico Ponte Vecchio (ricostruito nel Trecento). Questa statua smozzicata, citata da vari cronisti, era il rimasuglio di un cavallo di una statua equestre della quale nessuno ricordava l’origine. Poiché non si conoscono statue equestri di Marte, gli storici moderni hanno avanzato l’ipotesi che si trattasse forse di un’effige di Totila, il re degli Ostrogoti, che fu responsabile della distruzione di Firenze nel 550 (e non Attila re degli Unni che Dante ha indicato confondendosi).
La presenza di questo “palladio” veniva vista come una protezione per la città: nel 1333 fu travolto da un’alluvione e i più pessimisti vi videro un preannuncio della peste nera (1348). In ogni caso al tempo di Dante esso esisteva ancora.
Il canto si chiude con un verso lapidario, l’unico sulla biografia del dannato: “Io fei gibetto a me de le mie case”, cioè “io feci la mia forca (gibetto è un francesismo da gibet) nelle mie case”, ovvero “mi impiccai in casa mia”. La drammatica scena dell’appeso, anonimo come tanti fiorentini che in quegli anni di boom economico non stavano al passo e si toglievano la vita, è permeata del senso di solitudine del suicidio.
[bibl]Inferno – Canto tredicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_tredicesimo&oldid=42494143 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]