Canto XIV Inferno – (vv 1-42) – La distesa infuocata

Testo e commento del Canto XIV dell’Inferno (versi 1-42) – La distesa infuocata

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’ le a colui, ch’era già fioco. 3

Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte. 6

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove. 9

La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa. 12

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa. 15

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei! 18

D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge. 21

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente. 24

Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta. 27

Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento. 30

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde, 33

per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo: 36

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
sotto focile, a doppiar lo dolore. 39

Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca. 42
Io fei gibetto a me de le mie case".


Il canto inizia ricollegandosi alla fine del XIII: Dante, impietosito dalle parole del concittadino anonimo suicida trasformato in arbusto e straziato dalla lotta tra uno scialacquatore e i cani infernali avvenuta tra i suoi rami, poiché “carità del loco natio mi strinse”, raduna i rami spezzati, come richiesto nel canto precedente, e li mette alla base della pianta “fioca” cioè muta, oppure esausta.
Dante e Virgilio arrivano al confine tra i due cerchi dove vedono la tremenda mano della giustizia che punisce senza deroga i nuovi dannati. Qui c’è una landa senza vegetazione, alla quale la selva dei suicidi fa da “ghirlanda”, come ad essa lo fa il fosso del Flegetonte (Dante vuole forse ricordare il fiume di sangue bollente passato due gironi fa, perché presto ne dovrà riparlare). Qui i poeti si fermano sull’orlo della spiaggia, simile a quella che calpestò Catone Uticense (vicenda narrata da Lucano nella Pharsalia), e, dopo un’invocazione a Dio, il poeta passa a descrivere le anime punite: esse sono nude (tutti dannati sono nudi, ma a volte Dante lo ricorda solo per sottolineare la loro miseria) e molto numerose; tutte piangono ma non tutte seguono una stessa legge. Alcune infatti giacciono supine, le più tormentate, altre son sedute, altre ancora, più numerose, corrono senza sosta. Il tutto è coronato da una continua pioggia di fuoco, fitta come la neve che cade sulle Alpi quando non c’è vento, un’immagine ripresa dalla Bibbia (Genesi XIX 24 e Libro di Ezechiele XXXVIII 22). Non esiste un contrappasso preciso: si può solo dire che come la pioggia infuocata distrusse Sodoma, così tormenta i dannati. Inoltre un fatto così innaturale come il piovere fuoco invece che acqua è consono a coloro che andarono contro le leggi naturali.
Dante non spiega chi siano questi dannati, ma lo farà gradualmente nei prossimi tre canti: gli sdraiati sono i violenti contro Dio (bestemmiatori), quelli che corrono i violenti contro natura (sodomiti) e quelli seduti sono i violenti contro natura ed arte (gli usurai). Una volta tanto nella presentazione dei dannati nei canti successivi Dante non seguirà l’ordine di peccato dal meno al più grave, ma inizierà dai bestemmiatori per finire con gli usurai.
Tornando alla pioggia infuocata Dante fa una similitudine colta, mutuata da una lettera di Alessandro Magno ad Aristotele: Dante paragona la pioggia continua a quella che Alessandro vide in India, dopo la quale ordinò ai suoi soldati di calpestare il suolo per estinguere le fiamme, così che il fuoco si estinguesse meglio quando è piccolo e isolato. Nella lettera in questione i fatti sono un po’ diversi e si parla di due precipitazioni impressionanti: prima una grande nevicata, che rese necessario che i soldati scalpicciassero il terreno, seguita da una portentosa pioggia di faville infuocate, che essi dovettero soffocare con le vesti. Dante fa un po’ confusione e mescola le immagini, probabilmente perché non aveva letto la lettera direttamente, ma l’aveva trovata menzionata nelle Meteore di Alberto Magno, dove si trova lo stesso schema della Commedia.
Nell’Inferno inoltre la sabbia prende fuoco facilmente, come l’esca sotto l’acciarino (“focile”, nell’antico significato), e raddoppia la pena del dannati, bruciati dall’alto e dal basso. Infine Dante è colpito dal movimento senza sosta delle mani dei dannati, che si sventolano per scansare l'”arsura fresca”, un ossimoro per indicare le nuove fiammelle.

[bibl]Inferno – Canto quattordicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_quattordicesimo&oldid=44351243 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]

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