Canto XIV Inferno – (vv 43-72) – Capaneo

Testo e commento del Canto XIV dell’Inferno (versi 43-72) – Capaneo

I’ cominciai: "Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci, 45

chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?". 48

E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: "Qual io fui vivo, tal son morto. 51

Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui; 54

o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", 57

sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra". 60

Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
"O Capaneo, in ciò che non s’ammorza 63

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito". 66

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: "Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia 69

Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi. 72


Dante si rivolge quindi a Virgilio e non è ben chiaro perché senta il bisogno di ricordargli che lui riesce sempre in tutto tranne che contro i diavoli davanti alla porta del basso Inferno. L’episodio del Canto VIII viene forse ripreso per il suo significato allegorico, come la ragione (simboleggiata dal poeta latino) non possa comunque vincere i peccati di malizia senza l’aiuto divino (infatti nel canto appare il messo celeste). L’Alighieri gli chiede chi sia quella grande figura (grande nel fisico o grande di animo?) che pare non si curi dell’incendio e sta sdraiata sprezzante e torvo come se la pioggia non lo martorizzasse. L’uso di diversi “pare” ha fatto pensare ad alcuni commentatori che l’atteggiamento di Capaneo fosse una sorta di messinscena, anche se forse Dante ha solo voluto manifestare la sua sorpresa di fronte a questa “grande” persona.
E quest’uomo sdraiato, accortosi che si parlava di lui, grida: (parafrasi) “Io sono da morto quello che ero da vivo (un bestemmiatore). Giove può stancare quanto vuole il suo fabbro dal quale prese il fulmine che mi schiantò; e può stancare anche tutti i ciclopi suoi aiutanti, turno per turno nella nera fucina dell’Etna (qui è usato il nome antico, “Mongibello”), intimando -Oh buon Vulcano aiuta, aiuta!-, come fece nella battaglia di Flegra (contro i giganti), saettandomi con tutta la sua forza per quanto vuole: da me non potrebbe avere vendetta” (vv. 51-61).
Questo anatema gridato senza fiato è colmo di ira contro la divinità, peccato per il quale viene punito Capaneo (il suo nome ci verrà rivelato nel verso successivo), uno dei sette re che assediarono Tebe e che, come racconta Stazio nella Tebaide, dopo la vittoria si innalzò sulle mura della città sconfitta urlando bestemmie contro Dio finché Zeus non lo fulminò con una saetta. Nel suo grido di vendetta contro Dio egli stimola Giove a lanciargli ora quanti fulmini voglia, ma niente potrà piegare il suo spirito ribelle.
È da notare come il dio pagano qui sia usato come schermo del vero Dio, per cui le imprecazioni lanciate contro di esso sono punite al pari di quelle verso il Dio cristiano. Dante dopotutto non avrebbe mai potuto mettere nero su bianco una vera bestemmia o imprecazione contro il suo Dio.
Virgilio, dopo aver sentito l’imprecazione, si rivolge allora furente contro il dannato: (parafrasi) “Capaneo, la tua punizione sta proprio nella tua superbia implacabile e nella tua continua rabbia che sono adeguate al tuo peccato” (vv. 63-66). Intende cioè che Dio non si vuole vendicare obbligandolo a sottomettersi, né procurandogli pene fisiche, ma la sua tortura sta proprio nella sua superbia eterna e nella sua rabbia impotente, dovuta alla ripetizione continua del suo peccato. Virgilio ribadisce questo anche con Dante, al quale si rivolge con fare più sereno (“con miglior labbia”) e gli spiega la storia dei sette re di Tebe e di come il disprezzo di Capaneo sia un degno ornamento del suo cuore (malvagio).
La bestemmia per Dante quindi, esemplificata magistralmente dall’episodio, non consiste nell’accidentale imprecazione, ma in un disprezzo intimo della divinità e nel misconoscimento della sua superiorità. Non ha niente a che fare quindi con l’ateismo, perché chi lancia un’ingiuria ammette implicitamente l’esistenza dell’ingiuriato (e poi gli atei o epicurei sono trattati nel Canto X).

[bibl]Inferno – Canto quattordicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_quattordicesimo&oldid=44351243 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]

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