Canto XVII Inferno – (vv 28-78) – Gli usurai
Testo e commento del Canto XVII dell’Inferno (versi 28-78) – Gli usurai
Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". 30 Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. 33 E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. 36 Quivi ’l maestro "Acciò che tutta piena esperïenza d’esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. 39 Li tuoi ragionamenti sian là corti; mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". 42 Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. 45 Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là soccorrien con le mani quando a’ vapori, e quando al caldo suolo: 48 non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. 51 Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne’ quali ’l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi 54 che dal collo a ciascun pendea una tasca ch’avea certo colore e certo segno, e quindi par che ’l loro occhio si pasca. 57 E com’io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d’un leone avea faccia e contegno. 60 Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un’altra come sangue rossa, mostrando un’oca bianca più che burro. 63 E un che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? 66 Or te ne va; e perché se’ vivo anco, sappi che ’l mio vicin Vitalïano sederà qui dal mio sinistro fianco. 69 Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi ’ntronan li orecchi gridando: "Vegna ’l cavalier sovrano, 72 che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ’l naso lecchi. 75 E io, temendo no ’l più star crucciasse lui che di poco star m’avea ’mmonito, torna’ mi in dietro da l’anime lasse. 78
Virgilio ha desiderio di parlare con la bestia e dopo essere scesi dall’argine, dove avevano camminato fino ad allora, invita Dante ad andare nel frattempo, facendo attenzione a evitare il “sabbione” arroventato, a parlare con il gruppo di dannati seduti vicino all’orlo del cerchio “Acciò che tutta piena / esperïenza d’esto giron porti”. Fanno dieci passi (simbolici delle dieci Malebolge?) e i due si separano, con la raccomandazione che sia per poco.
Dante si avvia allora verso la terza categoria dei dannati del girone dei violenti contro Dio e contro natura. Ha già incontrato un bestemmiatore (Capaneo), diversi sodomiti (Brunetto Latini e i tre fiorentini), ma ancora nessuno usuraio, cioè nessuno di quei violenti contro natura e arte, che, come spiegato particolareggiatamente nel Canto XI, non traggono il loro guadagno né dal sudore né dall’ingegno, ma dal denaro stesso (in pratica tutti i banchieri, secondo la definizione medievale di usura). Essi sono a metà strada tra la pena dei violenti contro Dio (sdraiati in terra, sotto la pioggia infuocata), la peggiore, e quella dei sodomiti (in corsa senza sosta sotto la pioggia di fiammelle), la più lieve. essi devono infatti stare seduti e con le loro mani si sventolano e cercano incessantemente di spegnere le fiammelle appena cadute. In questa attività Dante li paragona ai cani che si grattano con le zampe per scacciare le punture “o da pulci o da mosche o da tafani”, con un ripugnante sentimento sottolineato dalla similitudine tutta animalesca. Inoltre Dante nota che essi hanno una borsa ciascuno al collo con disegni sopra, alludendo molto probabilmente alle borse che prestatori e cambiatori portavano sempre al collo durante i loro affari e che più li contraddistingueva assieme al libro dei conti. Su queste borse sono impressi gli stemmi familiari, che serviranno a Dante per indicare le famiglie di usurai, piuttosto che i singoli peccatori. Non ne indica il nome, ma il solo stemma all’epoca doveva essere più che sufficiente per un chiaro riferimento.
Continuando la serie di figure bestiali, non dev’essere un caso che in tutti gli stemmi che Dante nomina ci sia un animale impresso. Il primo dannato che vede ha un leone azzurro in campo giallo: è uno dei Gianfigliazzi di Firenze. Il secondo ha un’oca bianca in campo rosso (come sangue): ancora una famiglia fiorentina, quella degli Obriachi. Il terzo ha una scrofa azzurra in campo bianco: è degli Scrovegni di Padova e questo dannato, probabilmente il notissimo usuraio Reginaldo degli Scrovegni, inizia a sbraitare verso Dante, che ascolta e registra senza pronunciare una parola.
Chiede che ci faccia un vivo all’inferno; poi, con quel tono infamante che troveremo sempre più spesso nel basso inferno, non perde l’occasione per dire anche qualche futuro ospite del cerchio: gli siederà vicino Vitaliano del Dente (di Vicenza), mentre tutti questi fiorentini che ha intorno (lui dopotutto è padovano) non fanno che rimbombargli le orecchie con l’attesa di quel “cavalier sovrano” che ha sullo stemma tre caproni, tre becchi, un usuraio non ancora morto, il cavalier Giovanni di Buiamonte de’ Becchi.
[bibl]Inferno – Canto diciassettesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_diciassettesimo&oldid=41547318 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]