Canto XX Inferno- (vv 103-130) – Altri indovini

Testo e commento del Canto XX dell’Inferno (versi 103-130)-Altri indovini

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede". 105

Allor mi disse: "Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu - quando Grecia fu di maschi vòta, 108

sì ch’a pena rimaser per le cune -
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune. 111

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta. 114

Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco. 117

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente. 120

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago. 123

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine; 126

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda". 129

Sì mi parlava, e andavamo introcque.


Dante chiede allora di presentare altri dannati, e Virgilio ricomincia la carrellata da dove l’ha interrotta. Un dannato la cui barba ricade sulle spalle è l’augure che quando tutti gli uomini lasciarono la Grecia, lasciando solo i maschietti nelle culle (l’allusione è alla Guerra di Troia) egli indicò il momento propizio (“diede ‘l punto”) con Calcante per quando salpare dall’Aulide: si chiama Euripilo e Dante dovrebbe ben conoscerlo, lui che conosce a menadito l'”alta tragedia” virgiliana dell’Eneide (“Così ‘l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta.”, vv. 112-114). In realtà anche qui Dante commette un errore, e siamo al terzo in questo canto, oltre a quello di Luni/Lucca e quello della doppia citazione di Manto. Nell’Eneide Euripilo infatti non è affatto un augure, un indovino, ma egli è solo colui che riporta ai Greci il responso dell’Oracolo di Apollo.
Infine Virgilio nomina tre maghi contemporanei: Michele Scotto (cioè “scozzese”), italianizzazione di Michael Scotus, astrologo di Federico II qui accusato di “magiche frodi” e descritto come colui che “nei fianchi è cosí poco”, Guido Bonatti e il calzolaio Asdente, che nell’Inferno si pente di non essere rimasto sullo spago e sul cuoio (invece di dedicarsi alla magia).
Chiude la carrellata un accenno alle fattucchiere, le donne che “lasciaron l’ago, / la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine; / fecer malie con erbe e con imago” (vv. 121-123). Ai tempi di Dante la stregoneria era già perseguitata e risale al 1298 il primo processo a una strega a Firenze, addirittura al 1250 il primo assoluto in Toscana.
Il canto termina con un accenno temporale: la Luna (indicata come Caino con il fascio di spine, secondo la fantasiosa interpretazione delle macchie lunari medievale) è all’orizzonte (“tiene ‘l confine d’amendue li esmisperi”) e sta per tramontare sotto Siviglia (Sobilia). In pratica sono circa le sei e mezza del mattino[1] e Virgilio ricorda anche come la luna fosse piena il giorno prima, ma ciò non giovò a Dante nella selva oscura.
« Sì mi parlava, e andavamo introcque. »
(v. 130)
E mentre parlavano andavano “introcque”, termine dialettale già dispregiato nel De Vulgari Eloquentia dal latino inter hoc (nel frattempo), che suggella con un linguaggio da repertorio comico il canto, forse volendo presagire il tono del prossimo episodio con i diavoli.
Dante e la magia
In questo canto il contrappasso è tagliato sulla figura degli indovini, coloro che, come spiega lo stesso Dante, “vollero veder troppo avante” e ora sono costretti a guardare solo indietro. Essi sono tra i fraudolenti per aver messo in atto delle mistificazioni oggetto di colpa in due sensi. La prima è quella di aver adulterato l’ordine divino tramite il loro operato, sconvolgendo e influenzando cose concepite in natura come inintelligibili: tale colpa si applica ai “veri” indovini, almeno quelli dell’antichità mitologica. La seconda colpa è quella dei “falsi” indovini, che giustificarono con la menzogna le azioni dei potenti, proclamandole come prescritte dal volere divino. Dante ribadì questa seconda accusa anche in un’epistola diretta ai cardinali italiani del 1314.
Per quanto riguarda i “maghi”, coloro che artigianalmente esercitavano poteri occulti, la sua unica menzione in questo canto è quella breve e generica nei confronti delle fattucchiere, che non sembrano turbarlo troppo, a differenza di Tommaso D’Aquino e degli scolastici che collegavano direttamente e inequivocabilmente la pratica magica alla concupiscenza con il demonio (teoria che, attraverso la Santa Inquisizione, è giunta fino ad oggi nel sentire comune cristiano).
Per quanto riguarda l’astrologia poi Dante parrebbe proprio che vi credesse. Egli stesso cita spesso le costellazioni, conosce il suo segno zodiacale, Gemelli, e loda apertamente questa “arte liberale” nel Convivio), sebbene ne avesse una percezione sicuramente diversa da quella attuale. Egli la indicava come la più alta e ardua delle attività liberali umane sia per la “nobilitade del suo subietto” che per “la sua certezza”. Egli credeva che gli astri influenzassero l’uomo (e le varie sfere celesti avranno vari significati ben specifici nel Paradiso), come anche le stagioni e il tempo, per questo lo studio astronomico-astrologico era considerato importante e utile. In effetti l’unico astrologo dell’Inferno, Michele Scotto incontrato in questo canto, viene accusato non per le sue pratiche, ma per il loro utilizzo fraudolento (“veramente de le magiche frode seppe il gioco”). L’utilizzo dell’astrologia per prevedere il futuro inoltre andrebbe anche contro il valore del libero arbitrio umano.

[bibl]Inferno – Canto ventesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventesimo&oldid=38300964 (in data 14 novembre 2011).[/bibl]

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