Canto XXIII Inferno- (vv 1-57) – Fuga di Dante e Virgilio
Testo e commento del Canto XXIII dell’Inferno (versi 1-57)-Fuga di Dante e Virgilio
Taciti, soli, sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via. 3 Vòlt’era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’el parlò de la rana e del topo; 6 ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa. 9 E come l’un pensier de l’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia. 12 Io pensava così: ’Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. 15 Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. 18 Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand’io dissi: "Maestro, se non celi 21 te e me tostamente, i’ ho pavento d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li ’magino sì, che già li sento". 24 E quei: "S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro ’mpetro. 27 Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d’intrambi un sol consiglio fei. 30 S’elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia". 33 Già non compié di tal consiglio rendere, ch’io li vidi venir con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere. 36 Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, 39 che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta; 42 e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. 45 Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ella più verso le pale approccia, 48 come ’l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno. 51 A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto: 54 ché l’alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs’indi a tutti tolle. 57
Il canto inizia con la figura dei due pellegrini che, dopo essere sgattaiolati dai diavoli in rissa alla fine del precedente canto, adesso camminano taciti, soli, sanza compagnia e in fila come Frati minori. Dante ci fa anche sapere cosa stesse pensando in quel momento di silenzio, cioè alla favola di Esopo (anche se si trattava di un’aggiunta medievale al Liber Esopi) della rana e del topo, che lui vedeva analoga alla vicenda dei diavoli quanto le parole mo’ e issa (entrambe significanti “adesso”, in dialetto fiorentino -oggi usato solo da Spoleto in giù- o in quello pisano/lucchese). La favola in questione parlava di una rana che accetta di portare sulla schiena un topolino per fargli traghettare uno stagno, ma dopo essersi legata la sua coda a una zampa cerca di affogarlo a metà del tragitto, se non che un nibbio, attirato dal movimento del topo lo ghermisce catturando anche la rana che era legata; il significato è quindi quello di chi ha male intenzioni e rimane vittima della sua stessa malizia e può essere applicato all’episodio del canto precedente come il dannato Ciampolo di Navarra come rana e i diavoli come topolini, ma si potrebbe dire anche il contrario, con la pece quale “falco” che punisce tutti.
Ma come uno scoppio che ne porta un altro, il pensiero si rincorre nella testa di Dante, il quale adesso si è accorto che i diavoli potrebbero venire a vendicarsi su di essi, colpevoli dopotutto di avergli fatto sfuggire il dannato con le loro lunghe domande. La paura che essi stiano correndo loro dietro, come cane contro lepre, Dante la manifesta a Virgilio, il quale gli ha già letto nel pensiero con la velocità del “piombato vetro”, cioè dello specchio, a riflettere le immagini. Appena Virgilio termina di suggerire che essi potrebbero scendere giù dall’argine nel prossimo fossato, ecco che già in lontananza si vedono arrivare i diavoli rapidi con le ali tese, al che egli immediatamente prende Dante con un gesto protettivo e materno e si butta giù dallo scosceso “portandosene me sovra ‘l suo petto, / come suo figlio, non come compagno” (vv. 50-51). Dante mette su una vivida similitudine per descrivere la discesa in braccio al suo maestro, come farebbe una madre svegliata dal rumore di un incendio e prenderebbe il figlio per salvarlo “avendo più di lui che di sé cura”, vestita di una sola camicia. La rapidità di Virgilio, che si è gettato giù supino con il discepolo in braccio, ricorda anche l’acqua che scende nelle incanalature di un mulino.
Appena i due toccano terra i diavoli arrivano in cima al colle dove si trovavano i due poeti poco fa, ma lì non sono di nessun pericolo perché l’essere destinati alla quinta bolgia dalla divina provvidenza toglie loro la facoltà di uscirne.
[bibl]Inferno – Canto ventitreesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventitreesimo&oldid=41205359 (in data 14 novembre 2011).[/bibl]