Canto XXV Inferno – (vv 34-78) – I ladri fiorentini: altra metamorfosi

Testo e commento del Canto XXVdell’Inferno (versi 34-78)-I ladri fiorentini: altra metamorfosi

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse, 36

se non quando gridar: "Chi siete voi?";
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi. 39

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, 42

dicendo: "Cianfa dove fia rimaso?";
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 45

Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 48

Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 51

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 54

li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. 57

Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 60

Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 63

come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more. 66

Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: "Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno". 69

Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. 72

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste. 75

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. 78



Virgilio parla e Caco passa e va, nel frattempo tre spiriti si avvicinano sotto i due poeti, che li notano solo quando essi gli chiedono “Chi siete voi?”, interrompendo le loro discussioni.
Dante non li riconosce, ma, come succede talvolta nei discorsi, avviene che lo spirito che ha parlato deve nominarne un altro e dice “Cianfa dove fia rimaso?”, “dove sarà Cianfa?”, al che Dante, sentendo nominare un fiorentino, fa cenno a Virgilio di tacere per poter ascoltare.
Dante-scrittore sta per descrivere una scena di visioni fantastiche e sovrannaturali, per cui, come in altri passi, si rivolge prima direttamente al lettore per spiegargli che ciò che ha visto nell’Inferno è vero per quanto suoni incredibile. Un ramarro con sei zampe infatti si lancia contro uno dei tre dannati, iniziando a fondersi con esso. Se a questo diverso trattamento corrisponda un diverso peccato (così come per Vanni Fucci l’essere trasformato ciclicamente in cenere era forse legato al suo sacrilegio di rubare in un luogo consacrato), magari seguendo le specificazioni del peccato del furto che fa Tommaso d’Aquino[1], non ci sono elementi sufficienti per decifrarlo, sia dalla biografia stringatissima che qualche commentatore antico ha rilevato del dannato (Agnolo Brunelleschi, forse ladro che usava camuffarsi, per questo le sue sembianze sono così trasfigurate all’Inferno), sia dalla narrazione di Dante che è tutta incentrata sulla descrizione della metamorfosi e non allude ad altri particolari biografici o morali. Forse il contrappasso va interpretato solo come “furto” dell’identità, dell’umanità da parte dei serpenti di questi ladri.
La trasformazione è l’argomento sul quale si concentra Dante, in una specie di rivalità (lo scriverà tra poco) con i suoi modelli classici come Ovidio e Lucano.
Il ramarro dai sei piedi si aggrappa al ventre del dannato con la coppia di zampe centrali (“Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia” – v. 52), con quelle anteriori alle braccia (“e con li anterïor le braccia prese;”, v. 53) e con il muso gli morde la faccia (“poi li addentò e l’una e l’altra guancia;” – v. 54). Quindi gli distende le zampe posteriori lungo le cosce (“li diretani a le cosce distese,” – v. 55) e gli passa la coda tra le gambe appoggiandola distesa sulla sua schiena (“e miseli la coda tra ‘mbedue / e dietro per le ren sù la ritese.” – vv. 56-57). La bestia gli sta abbarbicata come l’edera agli alberi e i due copri iniziano a fondersi come la cera calda, unendo i due colori in un tono che non è proprio di nessuno dei due, come quello della carta che brucia, dove tra il foglio bianco e il nero della bruciatura appare un colore intermedio bruno.
Gli altri due dannati guardano, un po’ incuriositi un po’ intimoriti e dicono come Agnel non sia ormai “né due né uno”, ovvero la fusione non ha creato un nuovo individuo, ma un mostro orribilmente trasfigurato. Essi sono “perduti” nella nuova forma, con le teste fuse in un’unica faccia, gli arti anteriori divenuti due da quattro liste (cioè le due braccia dell’uomo e le due zampe anteriori del rettile sono divenuti gli arti anteriori del mostro[2], “Fersi le braccia due di quattro liste;” – v. 73), “le cosce con le gambe e ‘l ventre e ‘l casso (il busto) / divenner membra che non fuor mai viste”, dove ogni aspetto originale era cancellato (casso, notare la rima ambigua). Il mostro se ne va così via.

[bibl] Inferno – Canto venticinquesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_venticinquesimo&oldid=44003251 (in data 16 novembre 2011).[/bibl]

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