Canto XXXII Inferno – (vv 70-123) – L’Antenora: Bocca degli Abati

Testo e commento del Canto XXXII dell’Inferno (versi 70-123)- L’Antenora: Bocca degli Abati

Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi. 72

E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l’etterno rezzo; 75

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una. 78

Piangendo mi sgridò: "Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?". 81

E io: "Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta". 84

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
"Qual se’ tu che così rampogni altrui?". 87

"Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo", rispuose, "altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?". 90

"Vivo son io, e caro esser ti puote",
fu mia risposta, "se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note". 93

Ed elli a me: "Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!". 96

Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: "El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna". 99

Ond’elli a me: "Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi". 102

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti, 105

quando un altro gridò: "Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?". 108

"Omai", diss’io, "non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle". 111

"Va via", rispuose, "e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta. 114

El piange qui l’argento de’ Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi". 117

Se fossi domandato "Altri chi v’era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera. 120

Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia". 123



Dante prosegue senza commentare la scena precedente e si trova attorno a più di mille visi “cagnazzi” per il freddo: paonazzi? lividi? In ogni caso il pensiero di quella visione da ribrezzo al Dante-scrittore (cioè il personaggio del narratore) e sempre gliene darà a ripensare a quei guadi gelati; e mentre procedono verso il centro, verso il quale ogni peso tende (il centro della terra), Dante trema nel gelido vento eterno. Tra le diverse zone del nono cerchio non vi sono barriere, ma solo una densa nebbia che svela i luoghi gradualmente.
In questa terzina egli usa la rima in ezzo e in azzi, le peggiori combinazioni di suono che egli aveva indicato nel De Vulgari eloquentia, da evitare assolutamente nella poesia di stile elevato. È questo un esempio di rime aspre e chiocce richiamate a inizio del canto, unite alle numerose rime con suoni cupi (uso della u) e forti come le rime con doppia consonante (-accia, -etti, -olli, -inse, -ecchi, -onta…), e la rima tronca in “u” (Artù, più, fu).
A un certo punto egli percuote forte col piede una testa, forse per volontà sua, forse per destino (ovvero per la Provvidenza) o forse un caso della fortuna: come se la sua persona in quel caso fosse stato strumento di punizione divina. Quell’anima lo sgrida piangendo chiedendo perché lo pesta e perché gli faccia male, non fosse mai che egli sia venuto per accrescere la punizione di Montaperti…
Dante coglie al volo il riferimento e chiede a Virgilio di aspettarlo, perché deve togliersi un importante dubbio circa questo dannato, e che poi semmai riprenderà con tutta la fretta necessaria. Dante non lo dice, ma il dubbio in questione circa la Battaglia di Montaperti è relativo al sospetto di una tradimento nelle file guelfe, unanimemente sospettato ma mai appurato con certezza: qualcuno nella cavalleria guelfa, durante un duro attacco delle truppe tedesche di Manfredi aveva infatti mozzato di netto la mano del portainsegna Jacopo de’ Pazzi, facendo così perdere il punto di riferimento per l’armata fiorentina che dovette poi procedere allo sbando.
Dante ha quindi un forte sospetto, visto il luogo dove si trova, di poter dare finalmente una soluzione alla questione. Torna dall’anima dannata, che bestemmiava ancora, e inizia un litigioso battibecco (il terzo all’Inferno dopo quello con Filippo Argenti e quello tra Maestro Adamo e Sinone) con un rapido scambio di battute: (parafrasi vv. 87-102)
Dante: “Chi sei tu lanci questi insulti così?”
Dannato: “E tu chi sei, che vai per l’Antenora picchiando le gote degli altri, che se (io? tu?) fossi stato vivo sarebbe stato troppo?” (verso dal significato ambiguo, forse può essere inteso come: “se io fossi vivo, non sopportando quest’ingiuria, mi sarei già vendicato”)
Dante: “Vivo sono io, e questo potrebbe giovarti se chiedi fama, perché potrei scrivere il tuo nome nel mio racconto”
Dannato: “Io voglio il contrario, levati quindi di torno e non mi infastidire più, che non sai davvero come si lusinga da queste parti!”
Dante, afferrando il dannato per i capelli della collottola: “Ti converrà dire il tuo nome, se vuoi che ti rimangano capelli in testa”
Dannato: “Per quanto tu mi strappi i capelli non ti dirò chi sono io, nemmeno se per mille volte mi piombi (tomi) sul capo con tutto il tuo peso!”
Allora Dante nel pieno del suo sdegno questa volta violento gli strappa più d’una ciocca di capelli mentre il dannato urlava come un cane (latrando) con la faccia rivolta in basso.
Allora un altro traditore parla chiedendo che avesse Bocca da strillare tanto: (parafrasi vv. 107-108) “Che non ti basta il solito batter dei denti? Chi diavolo hai?”. Dante allora ha avuto conferma del suo sospetto e lascia il traditore intimandogli di tacere ora, perché il ricordo della sua onta sarà rivelato. Bocca degli Abati, questo è il nome completo del dannato, non tace, anzi, adesso che è stato tradito da un traditore come lui, si affretta a nominare quanti più altri possibili, in modo che anche essi subiscano la vergogna del loro riprovevole peccato: (parafrasi vv. 112-123) “Vattene pure e racconta quello che ti pare; ma se davvero uscirai di qui non tacere anche di quello che ebbe la lingua così pronta: lui è Buoso da Duera, che piange per il denaro ottenuto dai francesi, e potrai ben dire che l’hai visto là dove i peccator stanno freschi. E se ti domandassero ‘poi chi altri c’era?’ tu sei accanto a Tesauro Beccaria, al quale Firenze segò il collo. Più in là credo ci sia Gianni de’ Soldanieri con Ganellone e Tebaldello, che aprì le porte di Faenza quando tutti dormivano.”
Bocca degli Abati quindi, una volta visto scoperto il suo segreto si affanna per svergognare più compagni possibili, elencando vari traditori della patria (solo Ganellone non è contemporaneo, ma è il personaggio della Chanson de Roland che tradendo rese possibile il massacro di Roncisvalle). Essi sono puniti nell’Antenora, che prende il nome da Antenore, personaggio già omerico (ma Dante non lo sapeva perché non aveva letto l’Iliade) citato anche da Servio quale traditore di Troia.
In nessun altro luogo dell’Inferno si era assistito a una mancanza di solidarietà tra i dannati così totale e sistematica come in questo cerchio dei traditori.

[/bibl] Inferno – Canto trentaduesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_trentaduesimo&oldid=43992179 (in data 19 novembre 2011).[/bibl].

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