Canto XXXIII Inferno – (vv 151-157) – Invettiva contro Genova

Testo e commento del Canto XXXIII dell’Inferno (versi 151-157)- Invettiva contro Genova

Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi? 153

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna, 156

e in corpo par vivo ancor di sopra.



Il canto si conclude con una seconda invettiva, questa volta contro i genovesi come Branca Doria (uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna): possano essi essere del mondo spersi, poiché un loro concittadino si trova lì nel Cocito, insieme al peggiore dei romagnoli, mentre nel mondo quest’ultimo pare ancora vivo.
Le invettive contro città non sono infrequenti nell’Inferno e sono provocate dal sentimento di sdegno del poeta nei confronti di dannati particolarmente riprovevoli: oltre a quella contro Pisa in questa stessa cantica vi è quella contro Pistoia (XXVI) e quella contro Firenze (XXVII).
Punti notevoli [modifica]

Gustave Doré, “E tre dì li chiamai poi che fur morti”

Gustave Doré, Ugolino che addenta l’Arcivescovo Ruggieri
Si può dire che in questo canto prevalga l’aspetto teatrale, ravvisabile già nella suddivisione dei canti, che anticipa l’incontro con i personaggi e la richiesta di Dante nel precedente, in modo da focalizzare direttamente l’attenzione sul conte, che inizia così un lungo monologo cui non seguirà nessuna risposta da parte del protagonista. Anche i motivi e le descrizioni sono particolarmente ridotti, lasciando al centro solo la parola diretta del dannato, nella quale è ravvisabile come un tentativo di depistaggio: egli infatti non parla per niente del proprio peccato, e anzi si dichiara disperato non perché condannato all’Inferno, ma per il dolore provocato dal male che ha subito (vv. 4-5, “Tu vuoi ch’io rinnovelli / disperato dolor che il cor mi preme”): insomma, egli si pone non come peccatore, ma come vittima. Egli accenna solo brevemente alla lotta politica che lo ha visto impegnato (vv. 16-18, “Che per l’effetto de suo’ ma’ pensieri, / fidandomi di lui io fossi preso / e poscia morto, dir non è mestieri”), invece di dirci la sua versione dei fatti, ma si dilunga sulla condanna patita, che narra in forma altamente patetica. Dante fa un affresco sul male in generale, ma semina comunque parecchi indizi per aiutare il lettore a distinguere gli innocenti dai colpevoli, e cioè le vere vittime (i figliuoi, figli e nipoti del conte con lui rinchiusi: v. 88, “innocenti facea l’età novella”) dall’atteggiamente ben diverso da quello del padre (gli offrono addirittura le loro carni), chiuso invece nella propria disperazione – l’appello alla terra perché si apra rivela la sua mancanza di prospettiva spirituale, di fede nella giustizia superiore di Dio -, incapace di parlare (“sanza far motto”, “né rispos’io”, “stemmo tutti muti”) fino all’ultimo, quando la parola diventa inutile (v. 74 “e due dì li chiamai, poi che fur morti”), addirittura incapace di piangere (“io non piangeva”, “non lagrimai”). Egli è “cieco” (v. 73) – e tale parola non è casuale, come testimonia il suo uso in altri luoghi del poema: l’Inferno, per esempio, è definito “cieco carcere”, non si riferisce cioè a una cecità fisica, ma spirituale – a differenza dei figli, addirittura assimilati a Cristo (Gaddo morendo grida, al v. 69 : “Padre mio, ché non m’aiuti?”, proprio come Cristo, e più tardi Dante accusa Pisa di aver messo i ragazzi “a tal croce”, v. 87): per questo rimane confinato nel suo aspetto non più umano, ma bestiale, come indicano parecchie parole nel poema (v. 133 del XXXII: “sì bestial segno”; v. 1: “fero pasto”, cioè “feroce”, “da fiera”; v. 76: “gli occhi torti”; v. 78: “come d’un can”), fisso nel suo eterno atto cannibalesco.
A questo proposito, occorre notare che se nell’immaginario collettivo Ugolino mangia i suoi figli, il testo dantesco in proposito è ambiguo, e i critici lo hanno rilevato. La frase Poscia più che il dolor poté il digiuno si può interpretare anche nel senso di una morte per fame che sopravviene invece della morte per dolore. In particolare, Jorge Luis Borges nel libro Nove saggi danteschi, osserva che Dante stesso ha voluto che noi credessimo che Ugolino ha ucciso i suoi figli, e che non li ha uccisi, con un’ambivalenza insolubile.
Dante però ha consapevolmente alterato la storia di Ugolino per mettere in scena quella che da Francesco de Sanctis è stata definita come “tragedia della paternità”. Dal soggiorno quale esule nel Castello di Poppi Dante ebbe modo di conoscere e di restare in contatto epistolarmente con la contessa della Gherardesca, figlia orfana di Ugolino, per cui il poeta era sicuramente a conoscenza di come si erano svolti realmente i fatti: di come nella torre c’erano due figli e due nipoti di Ugolino, non tutti figli suoi, e di come tra essi vi fosse solo un adolescente, mentre gli altri avevano dai diciotto anni in su e il più grande di loro non era nemmeno innocente perché già macchiatosi di reati. A Dante però interessava solo la tragedia, messa in scena nei suoi tratti più essenziali: gli adolescenti in questo caso sono simboli lampanti di innocenza.
La disperazione di Ugolino è data dall’impotenza davanti alle sofferenze dei figli, causate dalla sua condotta, e in nessun punto del racconto egli si lamenta per la sua morte. In questo fatto alcuni hanno anche visto in trasparenza la figura di Dante, che esule per le sue insindacabili idee politiche, deciso a non patteggiare con il comune di Firenze condannò, secondo le leggi del tempo, anche i suoi figli all’esilio non appena essi ebbero raggiunto l’età per l’applicazione della norma. Quindi anche Dante è un padre che vede soffrire i propri figli per causa sua e se la saldità delle sue idee non gli fa provare un vero rimorso, è innegabile che egli almeno provi una sorta di inquietudine: per questo si scaglia così gravemente su chi condanna gli innocenti con i padri, raggiungendo il culmine nell’invettiva brutale contro Pisa.
Se il conte Ugolino è forse uno dei più celebri personaggi dell’intera Divina Commedia, non bisogna dimenticare che il canto prosegue dopo il suo incontro, poiché Dante presenta Frate Alberigo, vittima di una sua beffa, rivelando un’altra tecnica peculiare dell’Inferno, cioè l’accostamento di personaggi alti e bassi (l’episodio di Ugolino è inquadrato nei canti XXXII e XXXIII da traditori violenti e “plebei”), sottolineato anche dalle due invettive contro Pisa e Genova, che entrambe chiudono una sequenza: ciò testimonia l’impellente indignazione di Dante, rivolta all’insieme dei peccatori, e quest’operazione si può collegare al canto XIII, dove allo stesso modo il tono del canto si abbassa bruscamente dopo aver presentato un personaggio “alto”, Pier delle Vigne, con l’introduzione della movimentata e grottesca vicenda degli scialacquatori e poi di un personaggio che rimane addirittura del tutto anonimo. L’obiettivo perseguito da Dante con questa tecnica dell’accostamento tra personaggi “alti” e “bassi” e tra diversi toni e registri narrativi è quello di rappresentare la totalità del mondo in tutte le sue sfaccettature.

[/bibl] Inferno – Canto trentatreesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_trentatreesimo&oldid=44087015 (in data 20 novembre 2011).[/bibl].

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