Canto IX Inferno – (vv 64-105) – Il messo divino
Testo e commento del Canto IX dell’Inferno (versi 64-105) – Il messo divino
E già venìa su per le torbide onde un fracasso d’un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, 66 non altrimenti fatto che d’un vento impetüoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz’alcun rattento 69 li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. 72 Li occhi mi sciolse e disse: "Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo". 75 Come le rane innanzi a la nimica biscia per l’acqua si dileguan tutte, fin ch’a la terra ciascuna s’abbica, 78 vid’io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch’al passo passava Stige con le piante asciutte. 81 Dal volto rimovea quell’aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell’angoscia parea lasso. 84 Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. 87 Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno. 90 "O cacciati del ciel, gente dispetta", cominciò elli in su l’orribil soglia, "ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? 93 Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v’ ha cresciuta doglia? 96 Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo". 99 Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d’omo cui altra cura stringa e morda 102 che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver’ la terra, sicuri appresso le parole sante. 105
A questo punto Dante si rivolge di nuovo a lettore, dicendogli di “mirare”, cioè guardare il senso nascosto (“la dottrina che s’asconde”) sotto il velo dei versi “strani”: un chiaro invito a cogliere l’allegoria della prossima scena, che è tutt’altro che chiara ancora oggi.
Intanto quello che accade “sopra al velame” è che dalla palude proviene un fracasso, che come il vento impetuoso che fracassa i rami degli alberi nel bosco e fa fuggire le pecore e i pastori, così Dante vede, con gli occhi liberati dalla protezione di Virgilio, uno che viene su per la palude senza bagnarsi. Le anime dei dannati fuggono alla sua presenza, come fanno le rane che scappano tutte quando si avvicina una biscia, e questo essere miracoloso procede diretto scacciando i fumi che ha davanti al viso con la sinistra, perché con la destra regge una verghetta. Non si preoccupa di niente, solo i vapori gli disturbano la vista (“sol di quell’angoscia parea lasso”, v. 84), e allora Dante lo riconosce come colui “dal ciel messo”, che oggi viene indicato come l’angelo o come il messo celeste. Esso tocca la porta e l’apre toccandola appena con la verghetta, mentre rimprovera i diavoli che sono tutti spariti. Gli ricorda anche come Cerbero, che voleva impedire il passaggio di Ercole nell’inferno, porti ancora i segni della lotta perduta contro l’eroe sostenuto dalla volontà divina. Fatto questo il messo si volta e se ne va, con arie d’urgenza, senza curarsi minimamente dei due poeti.
Dopo la descrizione della scena è lecito domandarsi quale fosse il senso allegorico che Dante ha voluto inculcarvi e che riteneva così importante da fare un richiamo esplicito al lettore di cercarlo. La questione è tutt’altro che semplice e, a differenza per esempio delle allegorie della selva oscura (Canto I), qui gli studiosi si sono spremuti senza arrivare ad alcuna conclusione definitiva. Alcuni commentatori hanno riferito l’invito alla sola scena dell’arrivo del messo, altri a tutto il canto.
Un esempio di interpretazione generale può essere il seguente: la ragione, simboleggiata da Virgilio, non basta da sola ad affrontare e dominare i peccati di “malizia” (cioè i peccati commessi con volontà, non per incontinenza) puniti dentro la città di Dite; essa è ostacolata dalle tentazioni (i diavoli), dai rimorsi (le Erinni) e dalla disperazione che segue il rimorso e “pietrifica il cuore” (Medusa); la ragione può aiutare quel tanto che basta per cavarsela nell’immediato (Virgilio che si cura di coprire gli occhi a Dante), ma è solo tramite la grazia divina (il messo) che si può arrivare a una definitiva debellazione del peccato.
Il senso generale dovrebbe essere simile a questo, sebbene i vari personaggi minori assumano da commentatore a commentatore i più vari significati. Però pesa anche il fatto che questa spiegazione non possa essere capita da chi legga il poema linearmente da capo a fondo, perché la distinzione dei peccati puniti entro o fuori dalle mura di Dite viene esplicata solo nel canto XI. Non è d’altronde chiaro se Dante proprio a causa della chiarezza non immediata avverta il lettore di stare attento e magari ricordare dopo come interpretare la scena.
[bibl]Inferno – Canto nono, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_nono&oldid=38300821 (in data 8 novembre 2011).[/bibl]