Canto VII Inferno – (vv 16-66) – Gli avari e i prodighi

Testo e commento del Canto VII dell’Inferno (versi 16-66) – Gli avari e i prodighi

Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca. 18

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa? 21

Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi. 24

Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa. 27

Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: "Perché tieni?" e "Perché burli?". 30

Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro; 33

poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto, 36

dissi: "Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra". 39

Ed elli a me: "Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci. 42

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia. 45

Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio". 48

E io: "Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali". 51

Ed elli a me: "Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni. 54

In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. 57

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro. 60

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa; 63

ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una". 66


Una volta scesi nella quarta fossa (“lacca”, termine raro dal tardo latino laccus che sta per fossa, cisterna) Dante è quasi sorpreso da quello che vede ed esclama: “Giustizia divina! Ma chi ordinerebbe così tante pene (morali) e travagli (fisici) sempre strani e nuovi?”. Parafrasando con molta approssimazione in parole attuali forse l’invocazione suonerebbe come “Nessuno avrebbe più fantasia della giustizia divina nel predisporre e assegnare le pene”. A una frase magari un po’ “frivola”, Dante aggiunge subito una nota di rimprovero: “E perché noi umani ci riduciamo alle colpe che ci portano alla dannazione?”. Segue una similitudine che introduce la pena dei dannati: come le onde che davanti a Cariddi (sullo Stretto di Messina), si scontrano con quelle che provengono dal mare opposte (poiché vi si incontrano il Mar Tirreno e il Ionio), così qui la gente sembrava presa in un ballo (“riddi” da riddare, cioè ballare la ridda, un ballo in cui si gira con molte persone in cerchio).
Dopo aver notato l’enorme quantità di persone, Dante inizia a descriverne la pena: spingere pesi con il petto lungo la circonferenza del cerchio, ma non in tondo; un gruppo occupa un semicerchio e uno l’altro e girano in modo di scontrarsi in due punti estremi diametralmente opposti. In quei punti essi si ingiuriano dicendosi reciprocamente “Perché tieni?”, “Perché burli (cioè sperperi)?”, poi si voltano e rifanno il semicerchio nella direzione opposta.
Dante non chiede di quali peccatori si tratti, forse lo ha intuito dal loro grido, ma rivolgendosi a Virgilio domanda se tutte le persone con la chierica, che vede a sinistra, siano “chierici”, cioè prelati. Virgilio conferma che si tratta di religiosi, papi e cardinali, (adesso viene espresso il loro peccato) macchiatisi della colpa dell’avarizia; non di meno quelli della schiera destra furono coloro che spesero senza misura.
Tradizionalmente si indica questi peccatori come gli avari e i prodighi. Per la prima volta vengono puniti nell’Inferno due peccati analoghi ma opposti nello stesso girone, legati all’incontinenza di chi sbagliò nel “troppo” o nel “troppo poco”, in questo caso nello spendere. Fino ad ora infatti Dante non aveva incontrato casi di peccati punibili anche “in difetto”: la mancanza di lussuria è infatti la castità, comportamento che nella dottrina cristiana è assimilato alla santità e alla disciplina religiosa, mentre nel Medioevo non esisteva un contr’altare per la gola; secondo Vittorio Sermonti infatti se Dante fosse vissuto ai tempi nostri forse avrebbe punito assieme ai golosi anche i sostenitori delle diete troppo rigide che portano a scompensi alimentari.
Di solito i nomi dei peccati e peccatori in Dante sono convenzionali, poiché non indicati dal poeta ma dalla critica successiva. Questa affermazione è vera per i prodighi, ma nel caso degli avari egli cita il peccato dell’avarizia esplicitamente (v. 48). In ogni caso il significato del peccato è leggermente più ampio del senso che comunemente si attribuisce oggi a questa parola: non solo taccagneria, ma avidità, rapacità di denaro, ricchezza e potere in generale. Questo peccato secondo Dante è uno dei più grandi mali della sua epoca ed è tipico degli uomini di chiesa (vv. 46-48), ma a soffrirne sono in molti: nel canto VI esso è per esempio indicato da Ciacco come una delle tre cause della sventura di Firenze, mentre l’avarizia è anche generalmente indicata come simboleggiata dalla lupa del primo canto. Qui comunque Dante assimila l’avarizia a tutta la categoria degli uomini di Chiesa, intesa quindi come peccato caratterizzante la maggior parte di questi religiosi. Un’accusa così diretta e grave poteva essere formulata dal poeta dall’alto della saldezza della sua fede religiosa, e in conformità con l’alta considerazione che egli nutriva per la missione sacerdotale. Dopotutto in Paradiso XI egli esalterà l’amore di san Francesco d’Assisi per la povertà, celebrata come suprema virtù cristiana.

Priamo della Quercia, illustrazione al Canto VII
La “prodigalità” va intesa come peccato di incontinenza, cioè di chi “con misura nullo spendio ferci” (v. 42), cioè non spese mai con misura: sono gli accumulatori di beni, i “consumisti” diremmo oggi, da distinguere dagli “scialaquatori”, i dissipatori di patrimoni e i violenti contro i propri beni, che Dante colloca nel II girone del VII cerchio assieme ai suicidi. Sul perché il poeta scelga come simbolo del loro peccato il cranio rasato, che essi mostreranno al tempo della resurrezione (v. 57), forse può illuminare un passo di Sant’Ambrogio che dice come radere i capelli sia come recidere dal pensiero le cose mondane e superflue.
Il contrappasso di questi dannati non è chiarissimo, comunque si può interpretare per analogia, come nato dal fatto che essi si sono lasciati sormontare dai beni terreni ai quali in vita diedero la massima priorità: nell’Inferno quindi essi sono obbligati all’inutile ronda di spostare in perpetuo ammassi di materia inerte, simbolo dell’inutilità vana delle loro azioni.
Dante chiede a Virgilio se può riconoscere alcuno tra questi peccatori (come aveva fatto nei cerchi precedenti), ma il suo maestro lo ragguaglia su come ciò sia impossibile, tanto questi spiriti sono “imbruniti” come contrappasso della loro “sconoscente vita” cioè la loro vita dissennata (conoscenza è usato come sinonimo di misura, cfr. Convivio Libro 3, XV 9).

[bibl]Inferno – Canto settimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_settimo&oldid=42494136 (in data 7 novembre 2011).[/bibl]

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