Canto XII Inferno – (vv 1-45) – La frana e il Minotauro

Testo e commento del Canto XII dell’Inferno (versi 1-45) – La frana e il Minotauro

Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. 3

Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco, 6

che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: 9

cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa 12

che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 15

Lo savio mio inver’ lui gridò: "Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse? 18

Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene". 21

Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella, 24

vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: "Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale". 27

Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco. 30

Io gia pensando; e quei disse: "Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. 33

Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata. 36

Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno, 39

da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda 42

più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso. 45


Dante e Virgilio si erano fermati un attimo prima di entrare nel fosso del basso Inferno, giusto il tempo per abituarsi all’afrore e spiegare la struttura dell’Inferno. All’inizio di questo canto essi riprendono il cammino e si affacciano su una frana, che a Dante ricorda un’analoga “ruina” che “l’Adice percosse” nei pressi di Trento, che in genere si indica con i Lavini di Marco, vicino a Rovereto, riprendendo un passo di Alberto Magno (De meteoris III, 6) che probabilmente fece da ispirazione per Dante, piuttosto che un’esperienza diretta nei luoghi, improbabile per i primi anni d’esilio durante i quali venne scritto l’Inferno. Il poeta nota come, per quanto scosceso, sia possibile scenderlo.
Anticipato qualche verso prima (parafrasando, “venimmo all’orlo di una frana dove vedemmo qualcosa che nessuno vorrebbe vedere – ch’ogne vista ne sarebbe schiva” v. 3), il poeta descrive ora “l’infamia di Creta” che sta sulla punta del precipizio (“la rotta lacca” v. 11) e che fu concepita in una falsa vacca. Si tratta del leggendario Minotauro, del quale Dante riprende alcuni tratti della mitologia classica, in particolare attingendo dall’Ars amatoria di Ovidio: Pasifae, moglie di Minosse, per una maledizione di Poseidone si era innamorata di un toro e pur di farsi possedere si fece costruire una giumenta di legno entro la quale essa si nascose concependo il mostro del Minotauro; rinchiuso nel celebre labirinto, fu ucciso da Teseo (Dante lo chiama “Duca d’Atene” in quanto figlio del Re ateniese), con l’aiuto di Arianna.

L’incontro con il Minotauro, immaginato da William Blake
Il Minotauro, anonimo fiorentino della seconda metà del XIV secolo
Qui il mostro è descritto come macinato dalla sua stessa ira, che lo porta a mordersi così come facevano gli iracondi nello Stige. Virgilio lo attizza rivolgendogli parole beffarde: “Che credi che ci sia il Duca d’Atene? Spostati, che qui non c’entra tua sorella, lui (Dante) viene solo per vedere le pene” (parafrasi vv. 16-21). La bestia grottescamente si infuria ancora di più, ma come i tori che saltellano dopo aver ricevuto un colpo mortale, esso non può che sbandare qua e là senza senso, mentre Virgilio suggerisce di sgattaiolare via.
Dalla scarna descrizione dantesca e dall’indeterminatezza della sua fonte (Ovidio) si pensa che Dante lo immaginasse al contrario della figura che conosciamo, cioè con un corpo bovino sormontato da una testa (o un busto) umano.
L’episodio della bestialità irrazionale del Minotauro (la sua “matta bestialitade” citata nel canto precedente) viene messo in contrasto con quello successivo dell’incontro con i Centauri.
Dante non manca di sottolineare come la sua figura pesante di uomo vivo sia la sola a spostare sassi e pietruzze che rotolano giù. Virgilio allora racconta di come questa frana non c’era quando egli scese l’Inferno per la prima volta. Si riferisce a quanto raccontato nel Canto IX, quando descrisse come la maga Erichto lo costrinse a andare a richiamare un’anima nel cerchio più basso dell’Inferno per evocare l’anima di un traditore dal cerchio di Giuda. L’episodio è maturato da Lucano, ma il coinvolgimento di Virgilio è uno stratagemma puramente dantesco, per spiegare la conoscenza dell’Inferno da parte di Virgilio-guida. Se il viaggio immaginario di Virgilio si svolse poco dopo la sua morte (V c. IX v 25), ossia poco dopo il 19 a.C., egli non poteva aver visto la frana, rovinata quando ci fu il terremoto che fece tremare l’inferno dopo la morte di Cristo (33 d.C.). Virgilio dice che lo sentì poco prima che “colui che la gran preda levò a Dite dal cerchio superno”, cioè che Cristo (mai nominato nell’Inferno) scendesse al Limbo per portare in cielo i patriarchi dell’Antico Testamento, e che la scossa gli fece pensare che l’amore universale si ritrasformasse in caos, citando le dottrine filosofiche di Empedocle.

[bibl]Inferno – Canto dodicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_dodicesimo&oldid=38995951 (in data 11 novembre 2011). 2011).

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