Canto XIII Inferno – (vv 31-54) – L’arbusto sanguinante

Testo e commento del Canto XII dell’Inferno (versi 31-54 ) – L’arbusto sanguinante

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: "Perché mi schiante?". 33

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: "Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? 36

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi". 39

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via, 42

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme. 45

"S’elli avesse potuto creder prima",
rispuose ’l savio mio, "anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima, 48

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 51

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece". 54


Dante “coglie” un ramicello da un grande arbusto e viene sorpreso dal grido “Perché mi schiante?” seguito dal fuoriuscire di sangue marrone dal punto reciso. Di nuovo arrivano parole dalla pianta “Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi” (vv. 35-37) cioè “perché mi laceri? Eravamo uomini e ora siamo piante, perciò la tua mano dovrebbe essere più clemente”. Al che Dante impaurito lascia subito il ramo.
Come quando si brucia un legno verde, dal quale esce liquido linfatico da un capo e l’altro cigola soffiando vapore, così dal punto della frattura “usciva[no]” parole e sangue (Dante usa il verbo al singolare per indicare i due sostantivi, con uno zeugma).
Si tratta quindi di uomini trasformati in piante, un decadimento verso una forma di vita inferiore, pena principale dei dannati di questo girone. Essi hanno rifiutato la loro condizione umana uccidendosi e per questo (per contrappasso) non sono degni di avere il loro corpo. Questa situazione paradossale si manifesta anche in maniera pratica nel canto: i due pellegrini non hanno un volto da guardare e in due occasioni essi non capiscono se il dannato ha finito di parlare o stia per continuare, perché non possono vedere l’espressione del suo volto
La figura dell’albero sanguinante è ripresa dal III canto dell’Eneide, dove si narra dell’episodio di Polidoro: Enea, sbarcato sulle rive del mare di Tracia, vuole preparare un’ara e strappa alcuni rami da una pianta, ma dal legno troncato esce sangue, seguito, dopo alcuni tentativi, dalle parole di Polidoro, l’ultimogenito di re Priamo, che in segreto lo aveva affidato al re di Tracia affidandogli un’ingente quantità d’oro perché Troia era sotto assedio. Egli si è trasformato in pianta dopo essere stato trucidato e crivellato dalle frecce di Polimestore per impadronirsi del suo oro. Polidoro a questo punto invita Enea a lasciare al più presto quella terra maledetta. Al verso 48 Dante ammette di aver usato come fonte Virgilio, anzi è il poeta stesso che dice come quella scena Dante l’abbia veduta già nella “sua” rima.
A questo punto Virgilio dice che se Dante avesse saputo non avrebbe tagliato il ramoscello, ma in verità era necessario che Dante lo recidesse per il processo pedagogico della Commedia, affinché conoscesse la pena di questi dannati e promette che comunque in riparazione del danno, se vorrà presentarsi, Dante potrà ricordarlo tra i vivi.

[bibl]Inferno – Canto tredicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_tredicesimo&oldid=42494143 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]

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