Canto XIX Inferno- (vv 31-87) -Papa Niccolò III
Testo e commento del Canto XIX dell’Inferno (versi 31-87)-Papa Niccolò III
Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti", diss’io, "e cui più roggia fiamma succia?". 33 Ed elli a me: "Se tu vuo’ ch’i’ ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de’ suoi torti". 36 E io: "Tanto m'è bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace". 39 Allor venimmo in su l’argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto. 42 Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca. 45 "O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa", comincia’ io a dir, "se puoi, fa motto". 48 Io stava come ’l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, richiama lui per che la morte cessa. 51 Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto, se' tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto. 54 Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?". 57 Tal mi fec’io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. 60 Allor Virgilio disse: "Dilli tosto: "Non son colui, non son colui che credi""; e io rispuosi come a me fu imposto. 63 Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: "Dunque che a me richiedi? 66 Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; 69 e veramente fui figliuol de l’orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l’avere e qui me misi in borsa. 72 Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti. 75 Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando. 78 Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi e ch’i’ son stato così sottosopra, ch’el non starà piantato coi piè rossi: 81 ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver’ ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra. 84 Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne’ Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge". 87
Dante è subito attratto da una fossa dove il dannato scalcia più degli altri ed ha una fiamma più rossa degli altri; Virgilio si offre di accompagnarcelo subito scendendo con lui nella fossa: si scoprirà presto che quella è la fossa riservata nientemeno che ai papi. Con precisione Dante ci racconta la sua risposta e la discesa verso sinistra (“discendemmo a mano stanca / là giù nel fondo foracchiato e arto”, vv. 41-42). Arrivati alla fossa a Dante sembra che l’uomo pianga “con la zanca”, cioè con le gambe (“cianca” è un termine dialettale ancora in uso).
Dante allora si rivolge gentilmente all’anima capovolta:
« “O qual che se’ che ‘l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa”,
comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”. »
Cioè “Oh tale che stai sottosopra, anima triste che stai conficcata come un palo, se puoi parla.” La successiva descrizione ha dei toni surreali: Dante dice che stava come il frate che confessi un assassino (all’epoca la parola aveva valore di sicario, e in molte città essi erano condannati a morte tramite propagginazione, cioè appesi capovolti in una buca che veniva gradualmente riempita fino al soffocamento), che viene richiamato dall’assassino stesso per ritardare il momento della morte; sapendo che il dannato è un papa è piuttosto curioso lo scambio di ruoli tra confessato e confessore che qui il poeta immagina.
Il peccatore allora inizia a cantilenare con sorpresa “Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio?”, ripetendo due volte la domanda e aggiungendo che forse si è sbagliato lo scritto, cioè il libro del futuro che i dannati possono comprendere, che gli prediceva la sua venuta tra molti anni. Continua apostrofando che forse egli è già stanco (sazio) di straziare la bella donna che aveva sposato con l’inganno? Dante a queste parole rimane di sasso perché non le capisce:
« Tal mi fec’io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno. »
La spiegazione della situazione viene data solo qualche terzina più tardi, dopo che Virgilio ha intimato a Dante ammutolito dal dubbio di rispondere “Non son colui, non son colui che credi”, quasi canzonando la ripetizione della domanda del dannato.
Dante sta parlando con Niccolò III, papa simoniaco che attende la venuta del suo successore, il tanto odiato Bonifacio VIII. In quella bolgia infatti vige la regola che stiano in superficie solo gli ultimi arrivati, che poi vengono fatti sprofondare nelle viscere rocciose dopo l’arrivo di un nuovo dannato. Con questo stratagemma Dante può collocare all’Inferno anche i papi non ancora morti, in particolare il tanto odiato Bonifacio VIII che egli vedeva come uno dei personaggi causa delle disgrazie dei suoi tempi. La bella donna alla quale allude Niccolò III altro non è che la Chiesa latina, in una metafora frequente all’epoca del matrimonio tra pontefice e Santa Romana Chiesa. La nota del “tòrre con inganno” cioè del “prendere” ovvero sposare con l’inganno si riferisce alla contestata elezione di Bonifacio, il quale fece prima abdicare il suo predecessore Celestino V, autore del gran rifiuto (forse citato da Dante in Inf. III, 60).
Inizialmente Niccolò III (del quale non sappiamo ancora l’identità dal testo) parla presentandosi: (parafrasi) “Se sei così curioso di sapere chi io sia, tanto che hai anche sceso la “ripa”, sappi che io fui un papa (vestito del gran manto), e fui un Orsini (figlio dell’orsa), che con cupidigia cercai di far avanzare i miei nipoti (orsatti, cioè orsacchiotti), mettendo lassù averi in borsa e condannando me, qui giù, a essere imborsato” (vv. 67-72).
Continua poi il papa esponendo il meccanismo del tormento in quella bolgia e spiegando che il suo successore lo spingerà giù (Bonifacio VIII morirà solo nel 1303, mentre Dante immagina il viaggio nella primavera del 1300). Continua profetizzando che il suo seguace non starà a farsi “cuocere i piedi” quanto c’è stato lui, perché dopo di lui verrà un papa anche peggiore, “di più laida opra”. Questo terzo papa è Clemente V, francese (Dante fa intuire che verrà da ponente), che farà come quel Giasone (quello dei Maccabei spiega Dante, non quello mitologico incontrato nel canto precedente tra i seduttori) che comprò dal suo re (Antioco IV Epifane) la dignità di sommo sacerdote, così egli farà dal suo Re di Francia (Filippo il Bello). La citazione al papa che diede di fatto inizio alla cattività avignonese non giungendo mai a Roma e stanziandosi nel sud della Francia, è stata ed è tuttora fonte di grandi controversie riguardo alla datazione dell’Inferno.
La cantica viene generalmente datata come iniziata nel biennio 1304-1305 o, secondo altre tesi più accreditate, il periodo 1306-1307, con i fatti citati che non vanno oltre il 1309. La prima citazione pervenutaci di un passo della Divina Commedia risale al 1317 dal retro di copertina di una registro bolognese, mentre i manoscritti più antichi che possediamo risalgono tutti agli anni dopo il 1330, tra l’altro si tratta di copie di Giovanni Boccaccio che a sua volta le ricopiò non dal manoscritto originale. In questi versi Dante dimostra di essere a conoscenza del fatto che il successore di Bonifacio VIII starà al soglio pontificio meno di Bonifacio stesso (che governò la Chiesa per nove anni). Clemente V regnò fino al 1314 e questa citazione è in contrasto con tutte le teorie di datazione generalmente accettate (a quell’epoca si ritiene che Dante stesse già scrivendo il Purgatorio). La versione attualmente più accreditata è che la citazione riguardo alla durata del pontificato di Clemente sia un ritocco eseguito dal poeta in epoca successiva alla stesura della cantica. Non è d’altronde molto accreditato dai commentatori il fatto che Dante si fosse solo fidato del suo buonsenso valutando le condizioni di salute del papa in carica. A favore di quest’ultima ipotesi bisogna però considerare che affinché Bonifacio VIII stesse a farsi “cuocere i piedi” meno a lungo di Niccolò III, che rimase “imborsato” per ventitré anni (dalla sua morte nel 1280 a quella di Bonifacio VIII nel 1303), Clemente V avrebbe dovuto morire prima del 1326, previsione che Dante poteva ben arrischiare viste le precarie condizioni di salute di Clemente stesso.
[bibl]Inferno – Canto diciannovesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_diciannovesimo&oldid=40829735 (in data 14 novembre 2011).[/bibl]