Canto XIX Inferno- (vv 88-133) -Invettiva contro i papi simoniaci

Testo e commento del Canto XIX dell’Inferno (versi 88-133)-Invettiva contro i papi simoniaci

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
"Deh, or mi dì: quanto tesoro volle 90

Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro". 93

Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria. 96

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito. 99

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta, 102

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi. 105

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista; 108

quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque. 111

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento? 114

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!". 117

E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote. 120

I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse. 123

Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese. 126

Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto. 129

Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco. 132
Indi un altro vallon mi fu scoperto.



A questo punto Dante si sente di rispondere al Papa. Pur temendo di essere troppo temerario (folle), avvia un discorso (che poi Virgilio, simbolo della ragione, benedirà con il suo assenso): (parafrasi)
“Dimmi dunque, quanti soldi chiese Nostro Signore da San Pietro prima che gli desse le chiavi? Solo un ‘Vienimi dietro'; a loro volta né Pietro né gli altri apostoli chiesero alcun oro o argento a Mattia apostolo quando gli offrirono il posto dell’anima malvagia (di Giuda Iscariota); Perciò ti sta bene che tu venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati, che ti misero contro Carlo l’ardito. Se parlo così è per reverenza delle somme chiavi di pontefice che tenesti in vita, perché dovrei usare parole anche peggiori; la vostra avarizia (anche qui intesa come avidità) rattrista il mondo, schiaccia i buoni ed eleva i malvagi. Proprio di voi parlava profetizzando l’evangelista Giovanni quando nell’Apocalisse citava colei che siede sopra le acque ‘puttaneggiando con i re’ (la Chiesa, che siede su tutti i popoli rappresentati da tutti i fiumi della Terra, anche se nell’Apocalisse i teologi hanno indicato rappresentare Roma)” (vv. 90-108).
Dante prosegue e passa ad interpretare liberamente le figure dell’Apocalisse, dove compare una donna con sette teste (già interpretati come i sette colli di Roma, forse Dante alludeva ai sette doni dello Spirito Santo) e dieci corna (i dieci Re di Roma / i dieci comandamenti), con cui essa si fortificò finché piacque al marito, cioè al papa stesso. Grave è l’accusa della terzina seguente: Dante dice che ora i Papi adorano un Dio d’oro e d’argento (chiaro è il riferimento all’episodio biblico del Vitello d’oro), che non è nemmeno uno, ma sono cento, come nel diabolico paganesimo.
Infine l’orazione si conclude con un’invettiva contro Costantino I:
« “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre! »
Parafrasando, Dante rimprovera a Costantino non già la sua conversione, ma la cosiddetta donazione di Costantino, un documento falso (ma la sua non-autenticità fu dimostrata come tale solo nel XV secolo dall’umanista Lorenzo Valla, sebbene già nei secoli prima molti dubbi fossero stati avanzati a tal proposito) che legittimava il potere temporale del papa. Secondo questo documento, che Dante biasimò duramente nel De Monarchia, l’imperatore, prima di trasferire la capitale a Costantinopoli, fece dono a papa Silvestro I della città di Roma, alienando di fatto un pezzo di Impero a un esponente religioso. Forti di tale documento i papi, soprattutto nel medioevo, avallarono gli scontri contro l’Imperatore che erano alla base di gran parte dei problemi politici del medioevo europeo.
Terminata l’orazione, che il papa dannato ha ascoltato in silenzio contorcendo talvolta le gambe con maggiore energia per la rabbia o per il rimorso, Dante è rincuorato dall’espressione accondiscendente di Virgilio, il quale, come simbolo della Ragione, ha gradito la professione di “verità” del suo discepolo. Il maestro solleva quindi Dante e lo riporta sul sentiero sopra il fossato. Qui “un altro vallon” viene a mostrarsi al poeta.

[bibl]Inferno – Canto diciannovesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_diciannovesimo&oldid=40829735 (in data 14 novembre 2011).[/bibl]

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