Canto XVIII Inferno – (vv 40-66) – Venedico Caccianemico
Testo e commento del Canto XVIII dell’Inferno (versi 40-66)- Venedico Caccianemico
Mentr’io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: "Già di veder costui non son digiuno". 42 Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi; e ’l dolce duca meco si ristette, e assentio ch’alquanto in dietro gissi. 45 E quel frustato celar si credette bassando ’l viso; ma poco li valse, ch’io dissi: "O tu che l’occhio a terra gette, 48 se le fazion che porti non son false, Venedico se’ tu Caccianemico. Ma che ti mena a sì pungenti salse?". 51 Ed elli a me: "Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico. 54 I’ fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella. 57 E non pur io qui piango bolognese; anzi n’è questo loco tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese 60 a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno". 63 Così parlando il percosse un demonio de la sua scurïada, e disse: "Via, ruffian! qui non son femmine da conio". 66
In questa masnada Dante crede di riconoscere un dannato tra quelli che hanno il volto girato verso dove sta lui ora, sul ciglio del fossato nell’atto di iniziare a attraversare il ponticello. Il poeta si ferma e altrettanto fa Virgilio, poi Dante arretra un poco per scorgere meglio di chi si tratti. Il dannato allora si accorge di essere al centro dell’attenzione e si nasconde il volto abbassando il viso vergognosamente. Il tema della vergogna di trovarsi in tale luogo è uno dei sentimenti salienti delle Malebolge.
Dante però non demorde, anzi chiama il dannato indicandolo chiaramente per nome e per cognome, Venedico Caccianemico e gli chiede cosa ci faccia in questo luogo di tormento (“a sì pungenti salse”, forse echeggiando le “salse” bolognesi che erano fosse comuni per criminali non degni di sepoltura in terra consacrata). Questo Venedico è un personaggio molto importante, tra i più importanti cittadini di Bologna ai tempi di Dante (morirà solo nel 1303, Dante, in realtà scrive il poema nel 1305-6, e quindi sapeva della morte) e la sua invettiva fu molto coraggiosa verso un personaggio tanto in vista.
Il dannato risponde “mal volentieri”, ma non può negarsi al sentire la voce di chi l’ha riconosciuto. Rivela che lui fece prostituire la sorella Ghisolabella alle voglie del marchese (Obizzo II d’Este o, meno probabilmente, suo figlio Azzo VIII d’Este). Apprendiamo così che in questo fosso sono puniti i ruffiani. Inoltre Venedico dice che lì non è l’unico bolognese, anzi ve ne sono di più in quel luogo dell’Inferno che in vita tra il Savena e il Reno, i due fiumi che circondano Bologna. Per indicare i suoi concittadini egli usa una parafrasi linguistica, indicandoli come coloro che dicono “sipa” (“scipa”) invece di “sia”. Infine egli rincara la dose dicendo che se non ci si credesse, basti pensare all’avarizia del loro cuore. La gravità delle accuse a Bologna è particolarmente forte se si pensa che Dante mentre scriveva l’Inferno si trovava in esilio e che fu anche invitato nella città emiliana per ricevere l’incoronazione d’alloro di sommo poeta, ma egli declinò forse per il fatto di sentire quanto la sua presenza potesse essere sgradita.
La scena è chiusa da un demonio, che rincara ulteriormente la dose di accuse contro Venedico, frustandolo e urlandogli contro: “Via, / ruffian! qui non son femmine da conio”, cioè non ci sono donne da traviare, da far prostituire.
[bibl]Inferno – Canto diciottesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_diciottesimo&oldid=38300805 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]