Canto XXIV – Inferno – (vv 1-63) – L’argine della settima bolgia

Testo e commento del Canto XXIV dell’Inferno (versi 1-63)-L’argine della settima bolgia

In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno, 3

quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra, 6

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, 9

ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna, 12

veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia. 15

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; 18

ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte. 21

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio. 24

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima 27

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: "Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia". 30

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa. 33

E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto. 36

Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta 39

che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende. 42

La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
anzi m’assisi ne la prima giunta. 45

"Omai convien che tu così ti spoltre",
disse ’l maestro; "ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre; 48

sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma. 51

E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia. 54

Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia". 57

Leva’ mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
e dissi: "Va, ch’i’ son forte e ardito". 60

Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria. 63



Le prime cinque terzine di questo Canto sono tutte dedicate a una similitudine tra le più ampie del poema, che si ricollega direttamente al finale del canto precedente, dove Virgilio si è arrabbiato in silenzio per aver scoperto di essere stato beffato da un diavolo.
La similitudine inizia descrivendo il periodo dell’anno cominciato da poco (“giovanetto anno”) nel quale, secondo un linguaggio metaforico, il sole tempra i raggi sotto l’Aquario (dal 21 gennaio al 21 febbraio) e le notti incominciano ad accorciarsi fino al momento in cui saranno ridotte alla metà della giornata (equinozio di primavera) (“e già le notti al mezzo dì sen vanno,” – v. 3), quando la brina sulla terra fa immagine che copia (“assempra”) la sua “sorella bianca”, cioè la neve. Un pastorello (“villanello”) che ha finito il foraggio per le pecore, alzandosi vede allora la campagna tutta coperta di bianco e si batte la mano sull’anca in segno di disperazione, lamentandosi e rientrando in casa come un derelitto che non sa che fare, ma quando ritorna a guardare la campagna ritrova la speranza (letteralmente “la speranza ringavagna”, cioè rimette la speranza nel cesto) perché il mondo in quel frangente ha cambiato faccia, ed esce con le pecorelle a pascolare. Come avviene al pastorello, così il turbamento visto sulla fronte del maestro alla fine del canto precedente fa sbigottire Dante (“Così mi fece sbigottir lo mastro / quand’io li vidi sì turbar la fronte,”, vv. 16-17), ma altrettanto rapidamente giunge il rimedio per il male (l’impiastro, metafora medica: “e così tosto al mal giunse lo ‘mpiastro;”, v. 18), perché, quando arrivano alle rovine del ponte crollato, Virgilio, rinfrancato da questa vista, torna a rivolgersi a lui con quella dolce espressione che gli aveva visto in volto quando lo incontrò per la prima volta nella “selva oscura”, mentre tentava invano di salire il “dilettoso monte”.
Inizia quindi la risalita lungo le rovine del ponte che sovrastava la quinta bolgia, con Virgilio che afferra Dante (gli dà “di piglio”) e lo solleva verso la cima di una roccia, adocchiandone nel frattempo un’altra a cui Dante possa aggrapparsi, raccomandandogli di provare prima se essa è in grado di reggere il suo peso (“così, levando me sù ver’ la cima / d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia / dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa; / ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”.”, v. 27-30). Non era certo una via, dice Dante, possibile per chi avesse addosso una cappa, volendo spiegare come quello non fosse un percorso che potesse permettere agli ipocriti di uscire dalla loro bolgia, perché a mala pena ce la facevano a salire di appiglio in appiglio (“di chiappa in chiappa”), Virgilio “lieve” (perché spirito) e Dante sospinto da lui. Fortunatamente le Malebolge digradano leggermente verso il pozzo centrale, per cui l’argine interno è sempre un po’ più basso dell’altro, e alla fine i due poeti riescono a raggiungere l’ultima pietra in cima alle rovine del ponte crollato.
Arrivati in cima Dante ha il fiato corto e si siede sul primo masso che trova perché non ce la fa più (“i’ non potea più oltre”, v. 44), ma Virgilio subito riprende Dante e con solenni suggerimenti e incoraggiamenti lo incita a ricominciare subito la marcia.
Le parole di Virgilio sono famose per il loro rigore e importanza, anche se lette nel contesto della situazione suonano un po’ troppo forti. Non bisogna comunque dimenticare il loro valore soprattutto simbolico, non legato cioè solo allo spiccio avvenimento di Dante che riprende fiato dopo una salita.
Egli dice al discepolo che sedendo sulle piume o sotto le coperte non si guadagna fama durante la vita; chi fa così sulla terra lascia la stessa traccia che fa il fumo nell’aria o la schiuma sull’acqua; quindi è bene che Dante si alzi e vinca “l’ambascia” (l’affanno, il fiato corto per l’ascesa appena compiuta), perché l’animo ha il potere di vincere ogni battaglia se il corpo pesante non si accascia; ben più lunga sarà la scala che li attende (sottinteso al Purgatorio) perché non basta separarsi dai dannati (“Più lunga scala convien che si saglia; / non basta da costoro esser partito.”, vv. 55-56). Quest’ultima frase racchiude tutto il senso del viaggio simbolico nell’Inferno: Dante sta compiendo un percorso iniziatico verso il bene e la conoscenza del divino, ma prima di tutto egli deve avere la consapevolezza di tutti i peccati (l’espiazione, compiuta attraverso l’Inferno), poi compiere un percorso di purificazione attraverso il Purgatorio, perché il solo conoscere il male ed evitare di usarlo non è sufficiente per la beatitudine. Sebbene l’opinione più diffusa circa la “più lunga scala” sia quella appena riportata, Manfredi Porena fa notare che la salita più faticosa che Dante dovrà fare non è quella del Purgatorio. Si vedrà infatti che sulla spiaggia della montagna, ad anime giunte allora, Virgilio dirà che essi due son giunti colà per via così “aspra e forte” che ormai il salire su per la montagna sarà un gioco (Purgatorio II, vv. 64-66); e la via di cui qui parla è quella che hanno risalito dal centro della Terra all’isola del Purgatorio: questa dev’esser dunque la “più lunga scala” a cui Virgilio accenna qui. E il v. 56 significherà: «non basta partirsi da questi peccatori qui; dovrai partirti addirittura da tutto l’Inferno»[1].
Dante allora salta in piedi convinto, mostrando più lena di quella che si sente addosso, dicendo “Va, ch’i’ son forte e ardito” (v. 60). I due allora trovano il nuovo ponte sulla bolgia successiva, che è più irto di rocce (ronchioso), stretto e malagevole di quelli passati finora.

[biblInferno – Canto ventiquattresimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventiquattresimo&oldid=44928502 (in data 16 novembre 2011).[/bibl]

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