Canto XXV Inferno – (vv 79-151) -Terza metamorfosi
Testo e commento del Canto XXVdell’Inferno (versi 79-151)-Terza metamorfosi
Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, 81 sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; 84 e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. 87 Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse. 90 Elli ’l serpente e quei lui riguardava; l’un per la piaga e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 93 Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca. 96 Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio; 99 ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. 102 Insieme si rispuosero a tai norme, che ’l serpente la coda in forca fesse, e ’l feruto ristrinse insieme l’orme. 105 Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. 108 Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura. 111 Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. 114 Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ’l misero del suo n’avea due porti. 117 Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela di color novo, e genera ’l pel suso per l’una parte e da l’altra il dipela, 120 l’un si levò e l’altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. 123 Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie; 126 ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. 129 Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; 132 e la lingua, ch’avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 135 L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l’altro dietro a lui parlando sputa. 138 Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: "I’ vo’ che Buoso corra, com’ ho fatt’io, carpon per questo calle". 141 Così vid’io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra. 144 E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 147 ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; 150 l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.
Come una lucertola, di quelle che saettano nella calura estiva (“dei dì canicular”), un serpentello “acceso (d’ira), livido e nero come un gran di pepe”, si avventa sull’ombelico di uno dei due dannati fermi e poi gli ricade davanti (e quella parte onde prima è preso / nostro alimento, a l’un di lor trafisse; / poi cadde giuso innanzi lui disteso. – vv. 85-87). Il trafitto guarda l’altro in silenzio, sbadigliando, forse con rassegnazione, forse con noia, e anche il serpente riguarda; esce fumo dalla bocca del serpente e dalla ferita dell’uomo, che si uniscono nell’aria.
A questo punto Dante sta per descrivere una doppia trasformazione, dell’uomo in serpente e del serpente in uomo, ma prima di dedicarsi alla narrazione lancia, per così dire, una sfida ai poeti classici, la cosiddetta iactatio o vanto dei trattati dell’arte retorica, introdotta proprio canonicamente da un “Taccia (taceat)”. Taccia quindi Lucano quando parla di Sabello e di Nasidio (soldati dell’esercito di Catone che nella Pharsalia sono morsi da serpenti e muoiono orrendamente trasfigurati, uno trasformato in cenere, uno gonfiato fino a scoppiare) e stia a udire quello che “scocco”, come freccia; Taccia Ovidio (massimo poeta delle Metamorfosi), che parlò di Cadmo trasformato in serpente e di Aretusa mutata in fonte, che lui, Dante, non ha niente da invidiar loro: mai nessuno ha descritto una duplice metamorfosi incrociata, fronte a fronte. Dante non aveva però solo motivo di vantarsi in quanto poeta, ma la sua sfida va inquadrata nella consapevolezza degli autori medievali di aver ricevuto la rivelazione cristiana, quindi può comprendere un senso allegorico nei miti che era avulso agli autori antichi.
La descrizione in parallelo delle due metamorfosi è molto lunga e dettagliata, in vari passaggi in parallelo. Prima la coda del serpente si biforca in due, mentre all’uomo le gambe si fondono velocemente, così che ben presto non ci sono più segni di giuntura: è come se la coda biforcata prendesse, togliesse l’umanità dall’altra persona, che nel frattempo perdeva la sua natura; la pelle di uno si faceva molle, quella dell’altro dura; i piedi di dietro del serpente (inteso nel senso generico di rettile, perché i serpenti non hanno arti) si fondono e diventano il membro maschile, mentre il pene del “misero” (l’uomo) si è appena diviso; il fumo avvolge entrambi facendo variare il colore della pelle e facendo comparire capelli e peluria su uno, così come li faceva sparire dall’altro e nel frattempo uno cade giù e l’altro si leva in piedi; i due continuano a fissarsi con le “lucerne empie” (“gli occhi malvagi”), mentre i due cambiano “muso”: uno lo ritira verso le tempie, e la pressione della materia gli fa uscire gli orecchi dalle gote, mentre una parte della materia non si ritira e fa nascere il naso e le labbra; quello in terra invece fa uscire fuori il muso e ritira gli orecchi come fa la lumaca con le corna; la lingua di uno si biforca, mentre quella dell’altro si richiude; il fumo “resta” (cessa, scompare) e la trasformazione ha termine.
Allora il serpente se ne fugge sibilando (suffolando) per la valle “e l’altro dietro a lui parlando sputa”, forse per scacciarlo (Francesco Torraca nel suo commento ricorda che la saliva era ritenuta un efficace antidoto del veleno serpentifero[3]), e, rivolgendosi al dannato che ha assistito a tutta la scena in silenzio, gli dice: (parafrasi) “Voglio che Buoso corra ora come ho fatto io a quattro zampe per questa via”.
Dante ha visto così la “feccia” (zavorra) della settima bolgia trasformarsi. È il Dante-scrittore che ora prende la parola insistendo di nuovo sul lettore perché creda veramente a questa sua esperienza ultramondana, ma si scusa anche se la penna ha un po’ (fior, nell’italiano medievale significava “un poco”) “abborrato” cioè si è espressa un po’ confusamente, anche perché la visione stessa era confusa. Ma sebbene il suo animo fosse smarrito (smagato) egli aveva riconosciuto prima che sgattaiolassero via Puccio Sciancato (quello non trasformato) e colui che Gaville ancora piange, secondo i commentatori Francesco Cavalcanti, assassinato a Gaville e i cui parenti fecero tremenda vendetta nel piccolo borgo del contado fiorentino.
Dante ha trovato quindi ben cinque fiorentini in questa bolgia e lo sdegno per la mala fama di questi suoi concittadini gli farà pronuciare un’invettiva contro Firenze all’inizio del prossimo canto.
[bibl] Inferno – Canto venticinquesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_venticinquesimo&oldid=44003251 (in data 16 novembre 2011).[/bibl]