Canto XXXII Inferno – (vv 1-15) – Invocazione di Dante

Testo e commento del Canto XXXII dell’Inferno (versi 1-15)- Invocazione di Dante

S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce, 3

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco; 6

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo. 9

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso. 12

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe! 15


Il canto inizia con le celebri terzine nelle quali Dante invoca le Muse per trovare rime aspre e chiocce, cioè abbastanza dure e rauche, da adattarsi alla triste degradazione della zona più bassa dell’Inferno, il cerchio nono dedicato ai traditori, coloro che, secondo quanto si legge nel canto XI, sono coloro che hanno violato il patto di che la fede spezïal si cria, cioè quello tra persone propense a fidarsi per i vincoli speciali di parentela, di dovere civico, di ospitalità o di benevolenza. Dante quindi cercava un effetto retorico-linguistico che fosse estremamente opposto alla dolcezza (come il dolce stil novo).
Dante è quindi nel triste buco, il pozzo, sul quale pontan, cioè si appoggiano con la base, tutte le altre rocce dell’Inferno. Qui non trova parole adatte per descrivere (Dante usa il verbo “spremere”) pienamente il “succo” del suo pensiero, e nel Dante-scrittore si affaccia il timore di non essere all’altezza: dopotutto narrare il fondo dell’universo (il punto più basso del cosmo secondo la concezione tolemaica geocentrica, inteso come il più lontano da Dio) non è impresa da pigliare a gabbo (da prendere sottogamba) né è cosa adatta per la lingua che chiami mamma o babbo.
Su cosa intendesse Dante con la lingua di “mamma o babbo” non è chiaro ed è oggetto di controversia: la spiegazione più semplice è che indichi la lingua infantile, ma perché Dante avrebbe avuto bisogno di usare una lingua da bambini adesso? Altrimenti essa viene intesa come l’italiano in generale, anche se l’espressione apparirebbe un po’ svilente verso quel volgare che Dante proprio con la sua Comedìa si proponeva di nobilitare; mediando le due ipotesi si può intendere l’espressione come indicante una lingua istintiva, al contrario della lingua controllata e ricercata del linguaggio dell’arte letteraria. Può essere utile la citazione del De Vulgari Eloquentia dove Dante condannava “mamma” e “babbo” come termini puerili inadatti per lo stile elevato, forse da intendere in questo caso come stile adeguato a ciò che il poeta si apprestava a descrivere.
Segue quindi un’invocazione a quelle donne […] ch’aiutarono Anfione a chiudere Tebe (vv. 10-11), cioè le Muse che diedero la capacità al poeta greco di richiamare addirittura le pietre con la bellezza del suo canto che spontaneamente scesero dal monte Citerone e formarono le mura di Tebe (in questo senso chiudere è usato nel senso di recintare). Questo affinché l’esperienza vissuta (il fatto) e quella narrata (il dir) non siano divergenti.
Infine un’invettiva di una terzina contro i dannati di questo loco onde parlare è duro (che è difficile da descrivere), che meglio sarebbe stato se fossero nati pecore o capre (zebe).

[/bibl] Inferno – Canto trentaduesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_trentaduesimo&oldid=43992179 (in data 19 novembre 2011).[/bibl].

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