Canto XXXIII Inferno – (vv 109-150) – Frate Alberigo, Branca Doria
Testo e commento del Canto XXXIII dell’Inferno (versi 109-150)- Frate Alberigo, Branca Doria
E un de’ tristi de la fredda crosta gridò a noi: "O anime crudeli tanto che data v’è l’ultima posta, 111 levatemi dal viso i duri veli, sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, un poco, pria che ’l pianto si raggeli". 114 Per ch’io a lui: "Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna". 117 Rispuose adunque: "I’ son frate Alberigo; i’ son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo". 120 "Oh", diss’io lui, "or se’ tu ancor morto?". Ed elli a me: "Come ’l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto. 123 Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea. 126 E perché tu più volontier mi rade le ’nvetrïate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l’anima trade 129 come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto. 132 Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l’ombra che di qua dietro mi verna. 135 Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso". 138 "Io credo", diss’io lui, "che tu m’inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni". 141 "Nel fosso sù", diss’el, "de’ Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancora giunto Michel Zanche, 144 che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che ’l tradimento insieme con lui fece. 147 Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi". E io non gliel’apersi; e cortesia fu lui esser villano. 150
Mentre procedono, un’anima, che forse li ha scambiati per due peccatori dell’ultima fascia in direzione del loro luogo di supplizio, li chiama chiedendo che rimuovano il ghiaccio dai suoi occhi, per permetterle di piangere un po': ma Dante risponde che lo farà se essa si presenta, e possa egli scendere fino in fondo all’Inferno se non rispetta il patto (frase più che mai ambigua, visto che Dante dovrà andarci comunque).
Risponde dunque l’anima di essere frate Alberigo, quello della “frutta del mal orto” (che fece uccidere i commensali dando ai sicari come segnale l’ordine di portare la frutta), a cui qui viene reso pan per focaccia (v. 120, “dattero per figo”). O vuole forse intendere che deve rendere un ‘dattero’, più prezioso, per aver rubato un semplice ‘fico’, meno importante, e quindi che paga una pena maggiore della colpa? E allo stupore di Dante che lo crede vivo, risponde che è un vantaggio (in senso sarcastico) della Tolomea: i dannati che tradiscono il sacro vincolo dell’ospitalità vi precipitino prima che Atropo (una delle tre Parche) tagli il filo della vita, non appena commesso il peccato, mentre un diavolo fa stare in vita i corpi fino alla fine. Sulla spiegazione di questo meccanismo, che tra l’altro esclude la confessione, il pentimento e la redenzione successiva possibile per qualsiasi cristiano, non c’è nessun accenno nella teologia medievale né negli scritti dei padri della chiesa. Pare che Dante l’abbia concepita ispirandosi al Vangelo di Giovanni quando si dice che subito dopo che Giuda Iscariota tradì Gesù, ingoiando il boccone che lo indicava ai soldati del sommo sacerdote (e quindi violando la sacralità conviviale), Satana entrò dentro di lui immediatamente. Inoltre permette a Dante di citare persone ancora vive nel 1300.
Continuando il racconto, Alberigo, perché Dante sia più soddisfatto e gli tolga le lacrime gelate, aggiunge che l’ombra dietro di lui è Branca Doria e che è ormai lì da molti anni: Dante si stupisce perché lo conosce ancora in vita (“Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”), ma Alberigo gli dice prima che morisse Michele Zanche, da lui assassinato, il barattiere che bolle nella pece con i Malebranche (allusione a quanto descritto nel Canto ventiduesimo), egli venne sostituito nel corpo da un diavolo, così come un suo parente colpevole dello stesso crimine. Con insistenza Alberico chiede per la terza volta di aprirgli gli occhi; ma con la solennità data dalla netta cesura a metà del verso 149, Dante dice: E io non gliel’apersi. La cortesia (cioè un atto moralmente retto) con lui fu esser villano: Dante cioè è ormai maturato da quando Virgilio lo rimproverò nel canto XX per le lacrime vane per le pene dei dannati: egli è pienamente cosciente della giustizia divina e prende le distanze da coloro che ne hanno attirato l’ira e in coerenza con il loro agire da traditori evita di offendere Dio procacciando sollievo a un dannato. Nello stravolgimento dei valori che regna nell’Inferno la pietà consiste nel non avere pietà.
[/bibl] Inferno – Canto trentatreesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_trentatreesimo&oldid=44087015 (in data 20 novembre 2011).[/bibl].