Canto XV Purgatorio – (vv 1-145)

Testo e commento del Canto XV del Purgatorio (versi 1-145)

Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ’l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza, 3

tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era. 6

E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
perché per noi girato era sì ’l monte,
che già dritti andavamo inver’ l’occaso, 9

quand’io senti’ a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m’eran le cose non conte; 12

ond’io levai le mani inver’ la cima
de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
che del soverchio visibile lima. 15

Come quando da l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo sù per lo modo parecchio 18

a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte; 21

così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta. 24

"Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia",
diss’io, "e pare inver’ noi esser mosso?". 27

"Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo", a me rispuose:
"messo è che viene ad invitar ch’om saglia. 30

Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose". 33

Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: "Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto". 36

Noi montavam, già partiti di linci,
e ’Beati misericordes!’ fue
cantato retro, e ’Godi tu che vinci!’. 39

Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue; 42

e dirizza’ mi a lui sì dimandando:
"Che volse dir lo spirto di Romagna,
e 'divieto' e 'consorte' menzionando?". 45

Per ch’elli a me: "Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s’ammiri
se ne riprende perché men si piagna. 48

Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a’ sospiri. 51

Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema; 54

ché, per quanti si dice più lì ’nostro’,
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro". 57

"Io son d’esser contento più digiuno",
diss’io, "che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno. 60

Com’esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?". 63

Ed elli a me: "Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi. 66

Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’a lucido corpo raggio vene. 69

Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’essa l’etterno valore. 72

E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
e come specchio l’uno a l’altro rende. 75

E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun’altra brama. 78

Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente". 81

Com’io voleva dicer ’Tu m’appaghe’,
vidimi giunto in su l’altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe. 84

Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone; 87

e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: "Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto? 90

Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo". E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario. 93

Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ’l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque, 96

e dir: "Se tu se’ sire de la villa
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla, 99

vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto".
E ’l segnor mi parea, benigno e mite, 102

risponder lei con viso temperato:
"Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?". 105

Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: "Martira, martira!". 108

E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte, 111

orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra. 114

Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori. 117

Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’om che dal sonno si slega,
disse: "Che hai che non ti puoi tenere, 120

ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?". 123

"O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò", diss’io, "ciò che m’apparve
quando le gambe mi furon sì tolte". 126

Ed ei: "Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve. 129

Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir lo core a l’acque de la pace
che da l’etterno fonte son diffuse. 132

Non dimandai "Che hai?" per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace; 135

ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede". 138

Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti. 141

Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi. 144

Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.



L’angelo della misericordia – versi 1-39
Mancano circa tre ore al tramonto e i due pellegrini hanno il sole direttamente di fronte a sé, quando Dante prova una sensazione di forte abbagliamento e conseguente stupore. Si protegge gli occhi con le mani, così che riesce a sostenere brevemente la intensità della luce e a distinguere quello che gli pare un raggio che viene riflesso dall’acqua o da uno specchio. Distolto subito lo sguardo, chiede spiegazioni a Virgilio, il quale chiarisce che questo fenomeno è la luce dell’angelo che invita a salire nella cornice successiva. Quando l’anima di Dante sarà purificata, non proverà più alcun fastidio, anzi piacere.
Giunti di fronte all’angelo, odono le sue parole di invito a salire per una scala meno ripida delle altre, e appena saliti odono l’angelo cantare “beati i misericordiosi”, esaltando la virtù contraria al peccato dell’invidia.
Invidia e carità – vv. 40-81
Mentre procedono, Dante chiede a Virgilio chiarimenti sulle parole di Guido del Duca “là ‘v’è mestier di consorte divieto” (XIV, v.87).
Virgilio dà una spiegazione dottrinale: Guido ora patisce l’effetto del suo vizio e ammonisce ad evitarlo. L’invidia induce gli uomini a desiderare i beni terreni, che non possono essere condivisi (ecco la spiegazione della frase citata); se invece si volgessero ai beni spirituali, capirebbero che quanti più uomini tendono ad essi, tanto maggiore è il bene di ciascuno e tanto più ardente è l’amore che pervade il paradiso.
Dante risponde che le parole di Virgilio gli hanno suscitato un altro dubbio: come può essere che un bene distribuito fra tanti renda i possessori più ricchi che se fosse distribuito tra pochi? Virgilio commenta che la mente di Dante è ancora condizionata dal modo di pensare terreno. L’amore di Dio si concede a coloro che lo amano come la luce del sole traluce nei corpi trasparenti, e si accresce in proporzione all’amore dell’anima che lo accoglie. Perciò quante più numerose sono le anime che si volgono ad amare Dio, tanto più grande è l’amore complessivo, come la luce che si riflette da specchio a specchio. Se la spiegazione non è sufficiente, aggiunge Virgilio, sarà Beatrice a togliere a Dante questo e ogni altro dubbio. Intanto, Dante si dedichi al pentimento per liberarsi degli altri cinque peccati.
Visioni estatiche di mansuetudine – vv. 82-114
Dante, accettando la spiegazione di Virgilio, giunge nel terzo girone. Subito gli pare di essere rapito in una visione estatica, nella quale sulla porta di un tempio una madre pronuncia le parole che Maria disse a Gesù ritrovandolo nel Tempio fra i dottori (Luca, II, 48). La visione subito sparisce; ne compare un’altra, nella quale una donna sdegnata e in lacrime invoca dal marito (Pisistrato) vendetta contro il giovane che ha osato abbracciare la loro figlia. E il marito risponde con moderazione e benignità. In una terza visione appare a Dante una folla inferocita che lapida a morte un giovinetto; quest’ultimo, (Stefano), morendo invoca da Dio pietà per i persecutori.
Risveglio di Dante – vv. 115-145
Dante ritorna alla realtà e capisce di aver visto cose immaginarie, ma vere. Mentre si scioglie da quella specie di sonno che lo ha preso, Virgilio gli chiede come mai fatichi a reggersi e abbia camminato a lungo come un ubriaco o un sonnambulo. Alla breve risposta di Dante, che accenna alle visioni avute, Virgilio spiega che egli ne conosce anche i minimi pensieri, e che le visioni gli sono state mandate per predisporlo a sentimenti di mitezza. La domanda che prima egli ha rivolto a Dante aveva solo lo scopo di stimolarlo.
I due pellegrini procedono nella sera, cercando di spingere lontano lo sguardo malgrado i raggi lucenti del sole; ma a poco a poco si avanza un fumo scuro come la notte, che li avvolge completamente.
Analisi

Il canto, privo com’è di incontri con singoli personaggi, si presenta come passaggio narrativo e dottrinale.
Passaggio narrativo, in quanto, come è evidente, segue il salire dei due poeti dal secondo al terzo girone, con il consueto apparire dell’angelo e l’altrettanto consueto mostrarsi di esempi di virtù opposta al vizio punito nel terzo girone, che è l’ira.
Passaggio dottrinale, in quanto la riflessione suscitata in Dante dalle parole di Guido del Duca e sviluppata nell’ampia risposta di Virgilio tocca un tema assai delicato, ossia il rapporto tra l’uomo (creato dal bene, in cerca di bene) e i beni terreni. La spiegazione di Virgilio, condotta in termini filosofici, potrà essere approfondita alla luce della fede da Beatrice, ma già nelle parole del poeta latino la questione è messa chiaramente a fuoco: mentre i beni spirituali aumentano se messi in comunicazione fra gli uomini, i beni materiali diminuiscono. Da ciò il peccato dell’avarizia, al quale se ne collegano altri ugualmente gravi, come l’invidia e la superbia.
I versi finali (139-145) segnano un deciso stacco e, con l’apparire di un fumo scuro come la notte, anticipano l’avvio del canto sedicesimo, dedicato agli iracondi.
Prima, risalta il trittico degli esempi di mansuetudine: si tratta di visioni estatiche (non di sogni), che comportano un distacco dei sensi dal mondo circostante; la prima e la terza hanno origine nel Nuovo Testamento, mentre quella intermedia rimanda al mondo classico. Le vicende ben note del ritrovamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e di Stefano primo martire sono ricreate in modo tale da dare il maggiore rilievo alla mansuetudine (vv.88-89 e vv.112-114). Così pure l’esempio di Pisistrato, le cui parole misurate, che derivano dalla fonte medioevale (probabilmente Giovanni di Salisbury) sono accompagnate da un’espressione di benignità e mitezza.
Il linguaggio del canto è caratterizzato da complessità sia nelle similitudini astronomiche o scientifiche (in particolare vv.16-24) sia nel tessuto logico-filosofico dell’argomentazione di Virgilio, svolta in due parti successive per l’interposizione di una seconda domanda di Dante (secondo un metodo che garantisce gradualità e dovrebbe agevolare la comprensione). È infine da sottolineare l’accenno a Beatrice, uno dei numerosi passi in cui Virgilio preannuncia l’intervento di colei che saprà dare risposte più complete ai dubbi di Dante.

[/bibl]Purgatorio – Canto quindicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Purgatorio_-_Canto_quindicesimo&oldid=38626310 (in data 22 novembre 2011) [/bibl].

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