Canto XVII Paradiso – (vv 1-142)
Testo del Canto XVII del Paradiso (versi 1-142)
Qual venne a Climenè, per accertarsi di ciò ch’avëa incontro a sé udito, quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; 3 tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. 6 Per che mia donna «Manda fuor la vampa del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca segnata bene de la interna stampa: 9 non perché nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perché t’ausi a dir la sete, sì che l’uom ti mesca». 12 «O cara piota mia che sì t’insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi, 15 così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; 18 mentre ch’io era a Virgilio congiunto su per lo monte che l’anime cura e discendendo nel mondo defunto, 21 dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura; 24 per che la voglia mia saria contenta d’intender qual fortuna mi s’appressa: ché saetta previsa vien più lenta». 27 Così diss’ io a quella luce stessa che pria m’avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. 30 Né per ambage, in che la gente folle già s’inviscava pria che fosse anciso l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 33 ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: 36 «La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno; 39 necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende. 42 Da indi, sì come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti s’apparecchia. 45 Qual si partio Ipolito d’Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene. 48 Questo si vuole e questo già si cerca, e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dì si merca. 51 La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa. 54 Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. 57 Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. 60 E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; 63 che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’ a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. 66 Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso. 69 Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che ’n su la scala porta il santo uccello; 72 ch’in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri è più tardo. 75 Con lui vedrai colui che ’mpresso fue, nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l’opere sue. 78 Non se ne son le genti ancora accorte per la novella età, ché pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; 81 ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni. 84 Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ’ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. 87 A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; 90 e portera’ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai»; e disse cose incredibili a quei che fier presente. 93 Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie che dietro a pochi giri son nascose. 96 Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, poscia che s’infutura la tua vita vie più là che ’l punir di lor perfidie». 99 Poi che, tacendo, si mostrò spedita l’anima santa di metter la trama in quella tela ch’io le porsi ordita, 102 io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: 105 «Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; 108 per che di provedenza è buon ch’io m’armi, sì che, se loco m’è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi. 111 Giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, 114 e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che s’io ridico, a molti fia sapor di forte agrume; 117 e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico». 120 La luce in che rideva il mio tesoro ch’io trovai lì, si fé prima corusca, quale a raggio di sole specchio d’oro; 123 indi rispuose: «Coscïenza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. 126 Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta; e lascia pur grattar dov’ è la rogna. 129 Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. 132 Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento. 135 Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, 138 che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, 141 né per altro argomento che non paia».
Temi e contenuti
- Perplessità di Dante – versi 1-30
- Risposta di Cacciaguida: profezia dell’esilio di Dante – vv. 31-99
- La missione di Dante – vv. 100-142
Sintesi
Terminato il discorso di Cacciaguida nel canto precedente, in Dante sorgono nuovi dubbi che però non osa esprimere, sentendosi nell’animo come Fetonte, la cui tragica fine fu causata dal desiderio di avere conferma dell’essere figlio di Apollo. Ma su esortazione di Beatrice (che sa già cosa egli voglia dire, come del resto Cacciaguida, ma vuole spingerlo a esprimere i suoi desideri), il poeta chiede infine spiegazioni sulle numerose e vaghe profezie che ha udito dire, attraversando con Virgilio l’Inferno e il Purgatorio[1]. Il suo avo gli risponde allora chiaramente, iniziando il discorso con una digressione sulla prescienza divina.
Tale riflessione è importante perché in questi versi il poeta affronta una questione teologica molto dibattuta ai suoi tempi (e tuttora di difficile e controversa soluzione), e che opponeva i tomisti — che ponevano avanti la libertà dell’uomo — agli agostiniani — che invece credevano in una forma di predestinazione —: il problema, cioè, di conciliare la prescienza divina (cioè la conoscenza, da parte di Dio, di tutti gli eventi anche futuri), e il libero arbitrio umano; se infatti Dio, nella sua onniscienza, conosce tutto ciò che accadrà, come si può pensare che l’uomo sia effettivamente libero nelle sue scelte e nelle sue azioni? Dante aveva già in parte affrontato il problema nel canto XVI del Purgatorio, dove Marco Lombardo aveva definito l’uomo un essere dotato di ragione, e quindi responsabile delle sue scelte. Qui egli risolve la questione con una metafora: un uomo che assista da terra alle manovre di una nave non rende necessario quel movimento, non lo condiziona. Questa si può inoltre considerare un’ennesima prova dell’autorità cui Dante si appoggia, cioè la dottrina di San Tommaso d’Aquino.
Inizia poi la profezia sul futuro del poeta, che prende le mosse da un’altra similitudine: come Ippolito dovette lasciare Atene, pur innocente, per colpa della matrigna Fedra, così egli sarà esiliato da Firenze per colpa della Curia papale, ove ogni giorno Cristo viene mercanteggiato (si noti come Dante non accusi tanto i suoi avversari politici, quanto piuttosto i fiorentini presenti a Roma e in particolare l’allora papa Bonifacio VIII). In due terzine molto intense viene descritta l’angoscia di chi deve mangiare il pane altrui, di chi deve salire e scendere le scale di case estranee, e soprattutto della compagnia con cui si troverà Dante all’inizio dell’esilio, quella dei Guelfi bianchi fuoriusciti, malvagia e divisa, ma da cui ben presto prenderà le distanze. Nella sua sventura però avrà modo di conoscere anche personaggi positivi: viene qui lodata la famiglia dei signori di Verona, in particolare Bartolomeo della Scala e soprattutto Cangrande della Scala, che al momento ha solo nove anni, ma le cui opere influenzate da Marte (cioè le opere militari) saranno degne di grande fama, ancor prima che Clemente V inganni Arrigo VII (che venne in Italia nel 1310-1313, e nel quale tra l’altro Dante aveva riposto grandissime speranze): l’encomio di Cangrande — cui tra l’altro sarà anche dedicato il Paradiso — è così esaltato che alcuni critici hanno ipotizzato, senza però reale fondamento, che fosse questo il personaggio prefigurato da Dante nel “veltro” del canto I dell’Inferno. Cacciaguida fa poi anche altre profezie, che il poeta però non riporta perché sarebbero ritenute troppo incredibili.
Inizia qui anche un altro punto importantissimo della Divina Commedia, che Dante introduce esprimendo nuovi dubbi rivolti al suo trisavolo: manifestando il suo timore di ripercussioni per questo poema, da un lato, ma anche di perdere la fama presso i posteri tacendolo, dall’altro, Dante ribadisce la natura provvidenziale e sacrale del suo viaggio; Cacciaguida lo esorta infatti a non tacere, ma a levare alto il suo “grido” (v. 133: e si noti il richiamo alla Bibbia, in cui parimenti il profeta “grida nel deserto”), che come il vento percuoterà le cime più alte, cioè i personaggi più in vista: solo chi avrà la coscienza sporca, d’altronde, potrà sentirsi colpito, mentre per gli altri l’opera, una volta “digerita”, cioè meditata e assimilata, costituirà un “vital nutrimento”.
Analisi
Il dubbio di Dante è il metodo scelto dal poeta per mettere in evidenza in modo nettissimo il significato e la funzione che egli attribuiva alla propria opera in stretto collegamento con la sua vicenda personale di esule. Cacciaguida spiega le ragioni della condanna, illustra le esperienze dei primi tempi d’esilio, l’orgoglioso far parte per stesso, fino all’accoglienza a volte generosa (Bartolomeo della Scala) a volte umiliante:
«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.»
Da questo racconto, nella forma cara a Dante della “profezia post eventum” emerge la figura austera del poeta che, escluso da ogni possibilità di intervenire nel concreto delle vicende politiche ma rivestito di dignità “super partes” proprio per la sua condizione di esule, è chiamato ad essere testimone di verità. Il dubbio sull’opportunità di un messaggio poetico troppo severo e sgradito ai potenti induce Cacciaguida a consacrare l’opera del poeta come vital nodrimento per chi la leggerà.
Questo significato altamente morale della Commedia non si comprenderebbe se Dante non fosse certo che per l’umanità sviata è possibile il ravvedimento. La profezia del cambiamento sarà confermata da san Pietro nel canto XXVII (vv.142-148) e anche in quel contesto il compito di Dante sarà severamente riaffermato (e non asconder quel ch’io non ascondo vv. 64-66). Ma lo stesso Cacciaguida pronuncia un solenne preambolo (vv.37-45) volto a consacrare le affermazioni successive sotto il sigillo della verità che procede da Dio.
[/bibl] Paradiso – Canto diciassettesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Paradiso_-_Canto_diciassettesimo&oldid=42435124 (in data 24 novembre 2011) [/bibl].