Canto XXIX Inferno – (vv 73-120) – Griffolino d’Arezzo

Testo e commento del Canto XXIX dell’Inferno (versi 73-120)- Griffolino d’Arezzo

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati; 75

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia, 78

come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso; 81

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia. 84

"O tu che con le dita ti dismaglie",
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
"e che fai d’esse talvolta tanaglie, 87

dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro". 90

"Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue", rispuose l’un piangendo;
"ma tu chi se’ che di noi dimandasti?". 93

E ’l duca disse: "I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo". 96

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo. 99

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: "Dì a lor ciò che tu vuoli";
e io incominciai, poscia ch’ei volse: 102

"Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli, 105

ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi". 108

"Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena",
rispuose l'un, "mi fé mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. 111

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
"I’ mi saprei levar per l’aere a volo";
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, 114

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo. 117

Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece". 120


L’attenzione del poeta viene attratta da due dannati, uno appoggiato all’altro come due teglie messe a scaldare (la prima delle similitudini domestiche che caratterizzano lo stile di questo canto come comico-realistico), pieni di macchie dal capo ai piedi; e si grattavano con il morso delle unghie per la rabbia del prurito con tale rapidità come mai fu visto garzone (ragazzo nel significato più antico) strigliare un cavallo aspettando il suo signore (segnorso, con pronome possessivo enclitico come sopravvive in alcuni dialetti meridionali come per esempio in “màtrema”, “sòrate”) né stalliere che voglia andare presto a letto (“che mal volentier veglia”). La scabbia grattata veniva via come le squame della scardova (pesce dei Cyprinidae) o di altro pesce con squame più grandi.
Virgilio si rivolge a uno dei due con un vocativo e con una preghiera secondo le regole retoriche della captatio benevolentiae: (parafrasi) “Oh tu che ti gratti con le dita (letteralmente ti “dismagli” cioè stacchi le croste come maglie di un’armatura), e talvolta le usi come tanaglie, dicci se c’è qualche italiano (“Latino”) qui, e che possano le unghie bastarti in eterno per codesto lavoro”.
Il dannato risponde che lui e il suo compagno sono latini, ma prima chiede a Virgilio chi sia lui; a questa domanda Virgilio risponde , più sinteticamente che nell’episodio di Maometto del canto precedente, ma sottolineando comunque che Dante è vivo, notizia che anche qui desta il più grande stupore, tanto che i due malati si staccano e si rivolgono a lui tutti tremanti (perché sorpresi o perché malati?).
Dopo la presentazione Dante ha il campo libero e, invitato da Virgilio a parlare, chiede ai due di presentarsi, affinché possa la loro fama nel mondo non dileguarsi.
Il primo, che si presenta come aretino, è secondo gli antichi commentatori un tale Griffolino d’Arezzo, fatto bruciare come eretico (“mi fé mettere al foco”) da Albero da Siena, ma non per questo si trova nella decima bolgia. Narra infatti che avendo detto per celia (“parlando a gioco”) di sapersi alzare in volo, venne preso sul serio da Albero, un nobile con desideri impetuosi e poco discernimento (“ch’avea vaghezza e senno poco”), che gli chiese di insegnargli a volare come Dedalo, ma non riuscendovi lo fece mettere al rogo dal vescovo di Siena che lo amava come un figlio (“mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo”). Conclude poi dicendo che la vera ragione per cui si trova nella bolgia è perché nel mondo fu un alchimista. La novella è raccontata con tanto di discorso diretto, anche qui in osservanza ai canoni di uno stile comico-realistico.

[/bibl] Inferno – Canto ventinovesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventinovesimo&oldid=38300987 (in data 18 novembre 2011).[/bibl].

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