Canto XXXIII Inferno – (vv 1-78) – Il racconto del conte Ugolino

Testo e commento del Canto XXXIII dell’Inferno (versi 1-78)- Il racconto del conte Ugolino

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto. 3

Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli. 6

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme. 9

Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo. 12

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino. 15

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; 18

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso. 21

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, 24

m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame. 27

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno. 30

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte. 33

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi. 36

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane. 39

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli? 42

Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava; 45

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. 48

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 51

Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo. 54

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso, 57

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi 60

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia". 63

Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi? 66

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m’aiuti?". 69

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, 72

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno". 75

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti. 78



« La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.

Poi cominciò:… »
(v. 1-4)
Inizia così uno dei canti più famosi di tutto l’Inferno. Nelle ultime terzine del canto precedente Dante era stato attratto dalla figura di un dannato che rodeva alla nuca un altro, e mosso da curiosità verso tanta bestialità, chiede al peccatore superiore chi sia e perché si ritorce così sull’altro, ripromettendogli di portare nel mondo dei vivi la sua storia magari facendo conoscere le ragioni del suo odio se queste fossero state giustificabili.
Questo canto inizia quindi con la macabra figura di cannibalismo, subito sottolineata dall’accenno alla bocca di Ugolino e dall’accenno al pasto fiero cioè ferino, feroce. Egli solleva la bocca dal pasto feroce, pulendola con i capelli del capo che stava addentando, e comincia a parlare.
Dice che egli parlerà del disperato dolor che solo a ripensarci gli stringe il cuore, per il solo scopo di fruttare infamia al traditore che egli rode, e così inizia a parlare e lagrimar (si tratta della figura retorica dello zeugma, nella stessa espressione usata anche da Francesca da Rimini, ma con tutt’altro significato, perché in quel caso il piangere era dovuto al ricordo della lieta vita): già da questa premessa viene introdotto il senso drammatico della scena seguente e l’eco dell’odio e del dolore.

La Torre della Fame, incisione di Giovanni Paolo Lasinio (1865)
Se Dante è fiorentino, prosegue il peccatore, dovrebbe ricordarsi del Conte Ugolino della Gherardesca e dell’Arcivescovo Ruggieri di Pisa (per sé usa “fui”, per l’arcivescovo “è” perché il diverso tempo verbale si riferisce alla carica episcopale di Ruggieri, che perdura nella “seconda vita”): in effetti Ugolino è un personaggio chiave della politica toscana del Duecento. Conte di Donoratico, di nobile e antica famiglia ghibellina, Ugolino si alleò con Giovanni Visconti, capo dei guelfi, per proteggere alcuni suoi possedimenti in Sardegna dalle mire del Comune di Pisa, retto allora dalla parte guelfa. Per questa sua ambiguità politica venne bandito una prima volta da Pisa, ma vi rientrò nel 1276 con l’aiuto di Firenze e della lega guelfa. Da allora egli fu tra coloro che di fatto diressero la politica cittadina e forse guidò anche la flotta nella battaglia contro Genova. Dopo la sconfitta della Meloria (1284) egli divenne podestà di Pisa, mentre Genova, Firenze e Lucca si stavano coalizzando contro Pisa: per rompere il blocco compatto degli avversari, troppo potente per essere contrastato dalla sola Pisa, egli fece passare dalla sua parte Lucca e Firenze cedendo loro alcuni castelli alle città rivali, indebolendo i confini, ma tutto sommato riuscendo a salvare la situazione. Nel 1285 si alleò con Nino Visconti, nipote di Giovanni, anche se presto tra i due nacquero alcuni dissidi circa i possedimenti sardi. Nel 1288 tornarono a Pisa i prigionieri della Meloria e, coalizzatisi attorno all’Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, capeggiarono una rivolta popolare contro il Visconti, durante un’assenza di Ugolino: tornato immediatamente in città una nuova rivolta aizzata da Ruggieri lo fece catturare e imprigionare nella torre della Muda, dove venne lasciato morire di fame assieme a due suoi figli adulti e due nipoti, di quali uno solo adolescente. Dante riprende le mosse dalla storia e però propende per il tradimento dell’Arcivescovo, che avrebbe fatto rientrare Ugolino a Pisa con le lusinghe di una riconciliazione. Inoltre, per un maggior rilievo drammatico, immagina che i quattro prigionieri con Ugolino siano tutti suoi figli e adolescenti. Del perché di questa scelta narrativa riparleremo più avanti.
Il racconto di Ugolino all’Inferno quindi inizia premettendo che il racconto verterà su come la morte mia fu cruda, così che Dante possa valutare poi se è giusto o no che roda il capo di Ruggieri. La storia inizia in medias res, perché Dante toscano ormai dovrebbe ben conoscere come egli fu arrestato a tradimento e imprigionato, ma nessuno, dice Ugolino, sa cosa successe veramente in quella torre.

Gustave Doré:
Queta’ mi allor per non farli più tristi

Gustave Doré:
… “Padre mio, ché non m’aiuti?”
Quivi morì. …
La narrazione si avvia quindi “cinematograficamente”, inquadrando la finestrella della Torre della Muda, che da Ugolino prese il nome di “Torre della fame”, ed entrando nella stanza dei prigionieri, dove Ugolino guarda ormai la luna da molte notti. Una di queste ha un sogno che del futuro mi squarciò il velame (la violenza dell’espressione del v. 27, può indicare la durezza del colpo che esso rappresentò per Ugolino) e che è il preludio della vicenda: l’arcivescovo era a capo di una battuta di caccia sul Monte di San Giuliano (il monte che copre Lucca alla vista dei pisani) cercando il lupo e i suoi lupicini (che simboleggiano Ugolino e i suoi figli e rappresentano qui delle prede, ma anche animali a loro volta pericolosi), con cagne magre, ammaestrate e fameliche (il popolo, smagrito dalla povertà) e guidano la battuta i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi, importanti famiglie di Pisa; presto i lupi sono stanchi e i cani li raggiungono ferendoli ai fianchi con i denti aguzzi.
Il giorno dopo Ugolino sente piangere i figli e li sente chiedere del pane: il racconto è interrotto da un rimprovero-sfogo di Ugolino che dice a Dante (ma anche al lettore) che è ben crudele se già non prova dolore per quello che stava per accadere: dopotutto se non piange per questo, per cosa è solito piangere? In fondo ancora Ugolino non ha detto niente di terribile, ma queste interruzioni aumentano un senso di aspettativa tragica e sottolineano il grande crescendo dell’episodio.
Nell’ora in cui di solito veniva portato il cibo però, egli sentì chiavar l’uscio (più che chiuder a chiave si intende “inchiodare”, chiudere coi chiavelli) dell’orribile torre; in silenzio Ugolino guarda in viso i figli, e il suo sguardo doveva essere già pieno di disperato strazio perché Anselmuccio dice : “Tu guardi sì, padre! che hai?”; ma Ugolino non risponde nemmeno, incapace di parlare e di lacrimare. Passa un intero giorno e una notte e un giorno ancora (notare la scansione che dà l’idea dell’immobilità nel lento trascorre del tempo): un raggio di sole gli mostra come la sua disperazione e magrezza siano dipinte, come in uno specchio, sui volti dei figli e per il dolore Ugolino si morde le mani. In questo passo si rivela già come Ugolino, estraneo a qualsiasi forma di pentimento o di spiritualità, si sia di fatto già trasformato in quella sorta di pietra vivente, che sarà il suo castigo nel Cocito gelato.
Al che, credendo che lo facesse per la fame, si alzarono i figli e gli offrirono di mangiar piuttosto loro, di spogliare quelle carni che lui aveva fatto: si calmò poi per non rattristarli, e quel giorno ancora e l’altro rimasero muti. Di nuovo un’invettiva che segna una pausa e prepara al successivo capitolo della tragica narrazione:”Ahi dura terra, perché non t’apristi?”
Al quarto giorno, Gaddo si gettò ai piedi di Ugolino, invocando aiuto, e così morì; e così vide cascare gli altri tre uno a uno tra il quinto giorno e il sesto, dopo di che Ugolino già cieco, si mise a brancolare sopra ciascuno invocandoli con strazio; poi, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno. Su quest’ultimo verso alcuni hanno letto la confessione di cannibalismo, anche se confrontandolo con il resto delle parole del Conte sembra più logico interpretarlo come il fatto che più che dal dolore egli venne ucciso dalla fame. Commentatori come Francesco De Sanctis e Jorge Luis Borges (quest’ultimo nel saggio dantesco intitolato “Il falso problema di Ugolino”) hanno ipotizzato che l’espressione sia, in certa misura, deliberatamente ambigua e “oscura”, stimolando l’immaginazione del lettore, insinuando il dubbio e l’incertezza su quanto avvenne per rendere il verso più misterioso e suggestivo.
Allora Ugolino smette di parlare, storce gli occhi nel guardare Ruggieri e con violento odio riprende a mordere il teschio misero, coi denti forti come quelli dei cani: si chiude in questa maniera smaccatamente orrorifica il racconto in prima persona più lungo dell’Inferno e Dante, nella parabola dall’incontro con i due peccatori a ora, ha descritto i motivi di quell’odio che adesso sembra quasi giustificare il supplemento di pena verso l’arcivescovo, che nel frattempo è rimasto muto e immobile come un sasso. Nella sua insaziabilità e nel continuo riproporsi del suo dolore anche Ugolino vive così un rincaro della sua pena infernale.
Per un approfondimento su alcuni elementi dell’episodio si veda il paragrafo sui Punti notevoli.

[/bibl] Inferno – Canto trentatreesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_trentatreesimo&oldid=44087015 (in data 20 novembre 2011).[/bibl].

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