Canto XVI Inferno – (vv 1-63) – I tre fiorentini
Testo e commento del Canto XVI dell’Inferno (versi 1-63) – I tre fiorentini
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo de l’acqua che cadea ne l’altro giro, simile a quel che l’arnie fanno rombo, 3 quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d’una torma che passava sotto la pioggia de l’aspro martiro. 6 Venian ver’ noi, e ciascuna gridava: "Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava". 9 Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri. 12 A le lor grida il mio dottor s’attese; volse ’l viso ver’ me, e "Or aspetta", disse, "a costor si vuole esser cortese. 15 E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i’ dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta". 18 Ricominciar, come noi restammo, ei l’antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. 21 Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, 24 così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che ’n contraro il collo faceva ai piè continüo vïaggio. 27 E "Se miseria d’esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi", cominciò l’uno, "e ’l tinto aspetto e brollo, 30 la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se’, che i vivi piedi così sicuro per lo ’nferno freghi. 33 Questi, l’orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: 36 nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. 39 L’altro, ch’appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovria esser gradita. 42 E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo la fiera moglie più ch’altro mi nuoce". 45 S’i’ fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che ’l dottor l’avria sofferto; 48 ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51 Poi cominciai: "Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, 54 tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i’ mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. 57 Di vostra terra sono, e sempre mai l’ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. 60 Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi". 63
Il canto inizia con una nota sonora: Dante e Virgilio stanno camminando sull’argine del Flegetonte per non calpestare il “sabbione” percorso dalla pioggia di fuoco del terzo girone del VII cerchio (quello dove vengono puniti i violenti contro Dio e contro natura), e già essi iniziano a sentire il suono della cascata, simile al ronzio che fanno le api vicino alle arnie.
Allora da una schiera si allontanano tre dannati e vanno verso i due pellegrini, gridando a Dante: “Fermati tu, che sembri vestito come uno della nostra dannata città (terra prava)”.
Mentre Dante rimane colpito dalle orribili bruciature dei tre, Virgilio lo prepara all’incontro che sta per avvenire. Come con Farinata degli Uberti, il poeta latino annuncia che Dante sta per incontrare una di quelle anime “magne” delle quali ha chiesto notizie a Ciacco, attraverso una perifrasi: “Aspetta, con questi dannati si deve mostrare cortesia; e se non fosse per la pioggia infuocata direi che sarebbe meglio per te corrergli incontro.” (parafrasi vv. 14-18).
I tre dannati riprendono il loro “antico verso” (il pianto o l’andatura) quando vedono che i due si sono fermati e quando sono vicini iniziano a girare in tondo, uno dietro all’altro perché, come ha già spiegato Brunetto Latini nel canto precedente, i sodomiti sono puniti con una corsa eterna e se essi si fermassero per cento anni sarebbero ben più dolorosamente inchiodati al suolo come i bestemmiatori (forse perché fermarsi mentre si stanno pagando i propri peccati è considerabile come superbia contro Dio, proprio come le bestemmie?). Dante fa una similitudine un po’ oscura: come i campioni nudi e unti, studiando una presa che sia per essi vantaggiosa prima del combattimento, così facevano i tre ruotando il collo nel senso contrario dei piedi: forse tutto ciò per dire che essi lo fissavamo come quei “campioni” che nel medioevo si battevano su pagamento per dirimere controversie legali (più difficile è che Dante avese una reminiscenza dei gladiatori del mondo antico).
Uno dei tre inizia a parlare, prima dicendo che nonostante il loro aspetto miserabile essi furono uomini di fama in vita, per cui se per quella fama l’animo di Dante di pieghi, lo pregano di dirgli che esso sia “che i vivi piedi / così sicuro per lo ‘nferno freghi” (vv. 31-32).
Prima però egli offre tre lapidarie presentazioni di sé e dei suoi compagni: l’uomo, scorticato dalle fiamme e nudo, che lo precede fu una persona più importante di quello che sembri ora, nipote della buona Gualdrada (personaggio citato come esempio di virtù in Pd. XV, 112), e famoso condottiero di nome Guido Guerra, sostenitore del partito guelfo, sconfitto nella Battaglia di Montaperti, promosse la riscossa guelfa nella Battaglia di Benevento “fece con senno assai e con la spada” (v. 39); colui che lo segue invece è Tegghiaio Aldobrandi, che avrebbe dovuto essere ascoltato su nel mondo (egli aveva infatti sconsigliato ai fiorentini di combattere a Montaperti); lui invece è Iacopo Rusticucci, che ebbe più danno dalla bisbetica moglie che da altro (su questo epigrafico verso si sbizzarrirono i commentatori raccontando come a fronte della consorte che gli si negava egli si fosse dedicato ai rapporti omosessuali).
I tre fiorentini illustri, se non fosse per l’accenno nel sesto canto, dove sono indicati, almeno Iacopo e Tegghiaio, tra coloro “c’ha ben far puoser li ‘ingegni”, sarebbero appena che delle sagome tratteggiate molto frettolosamente. Essi appartengono tutti alla generazione precedente a quella di Dante e furono importanti condottieri e uomini politici, per cui si presume che la loro schiera sia accomunata da questi mestieri, mentre in quella di Brunetto Latini erano presenti solo chierici e letterati. Dante, per aver riconosciuto questi grandi uomini, scrive che volentieri sarebbe sceso ad abbracciarli, ma si guarda bene dal farlo per via della pioggia infuocata.
Inizia quindi a rispondere loro. Parafrasando, la loro misera condizione non gli suscita disprezzo, ma dolore persistente soprattutto da quando il suo maestro (Virgilio) lo avvertì del loro incontro; anche lui è fiorentino e “sempre mai”, un ossimoro che più che altro ha valore di rafforzativo di “sempre”, egli ha ascoltato e ripetuto con affetto i loro nomi e la loro onorata opera (notare che Dante prima mette il verbo ritrarre di ascoltare, usando il cosiddetto hysteron proteron, figura retorica che inverte l’ordine sequenziale delle azioni). Il poeta pellegrino lascia il fiele infernale per il “dolci pomi” del Paradiso, come gli ha promesso la sua guida (Virgilio), però prima dovrà scendere fino al centro della terra (ovvero fino al punto più basso dell’Inferno).
[bibl]Inferno – Canto sedicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_sedicesimo&oldid=38300898 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]