Canto XXVI Inferno – (vv 1-12) – Invettiva contro Firenze
Testo e commento del Canto XXVI dell’Inferno (versi 1-12)-Invettiva contro Firenze
Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande! 3 Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. 6 Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9 E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’ più m’attempo. 12
« Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande! »
(vv. 1-3)
La targa sul Bargello: «…qu[a]e mare, qu[a]e terra[m], qu[a]e totu[m] possidet orbem…» (1255).
Il canto si apre con un’invettiva nei confronti di Firenze che tematicamente si lega al canto precedente, dove Dante aveva incontrato cinque ladri appunto fiorentini: con ironia nota quanto Firenze sia conosciuta su tutta la terra (metaforicamente “batte l’ali”, citando un’iscrizione sul Palazzo del Bargello del 1255). Francesco Buti a proposito commentava infatti: «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Anche nell’Inferno quindi il nome di Firenze si spande, essendosi Dante dovuto vergognare per aver trovato ben cinque concittadini tra i «ladroni», che certo non arrecano «onore» alla sua città.
Ma se quello che si sogna al primissimo mattino, secondo una leggenda medievale, diventa vero, allora Dante predice che presto essa subirà la punizione che persino la vicinissima Prato, nonché altre città, desiderano per lei. Il perché sia indicata proprio Prato non è stato ancora chiarito e le ipotesi più convincenti sono quelle legate agli anatemi scagliati dal cardinale Niccolò da Prato, che tentò vanamente di riappacificare le fazioni fiorentine nel 1304. Manfredi Porena, pur non proponendo un’alternativa a questa spiegazione, trova difficoltà ad accettarla in quanto il cardinale da Prato fu poco dopo uno dei principali manipolatori dell’elezione di papa Clemente V, di cui si sa cosa pensasse Dante (Inferno XIX, 82-87), e par difficile che Dante potesse invocarne l’autorità, sia pure in tutt’altra materia[1].
Il poeta rincara poi la dose dicendo che se anche questa punizione fosse già arrivata, non sarebbe stata troppo sollecita (“E se già fosse, non saria per tempo.”, v. 10) e, visto che la riconosce necessaria, si augura che arrivi presto (“Così foss’ei, da che pur esser dee!”, v. 11) perché la sventura di Firenze gli graverà di più via via che la sua età avanza (“ché più mi graverà, com’ più m’attempo.”, v. 12). Non tutti i commentatori concordano sul perché Dante si augura che la punizione arrivi presto. Alcuni sostengono che la sventura di Firenze, benché ineluttabile, riempie Dante di dolore, che più gli sarà grave quanto più invecchierà. Il vecchio infatti sopporta meno i dolori, diventa sempre più disposto al perdono e l’amore per il luogo natio cresce in lui con l’età. Secondo altri Dante vuole dire invece che più la sventura tarderà, tanto più egli soffrirà per non aver goduto a lungo della punizione. Questa interpretazione contrasta però col “da che pur esser dee”, che riconosce sì la necessità della punizione, ma lo fa a malincuore. È curioso che i commentatori moderni protendano tutti per la prima ipotesi e quegli antichi per la seconda, a dimostrare come in fondo la lettura di questo passo è anche mutuata dalla nostra sensibilità e maniera di pensare.
[bibl] Inferno – Canto ventiseiesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_ventiseiesimo&oldid=44118652 (in data 17 novembre 2011).[/bibl]