Canto III Inferno – (vv 22-69) – Gli ignavi
Testo e commento del Canto III dell’Inferno (versi 22-69) – Gli ignavi
Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle, per ch’io al cominciar ne lagrimai. 24 Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle 27 facevano un tumulto, il qual s’aggira sempre in quell’aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira. 30 E io ch’avea d’error la testa cinta, dissi: "Maestro, che è quel ch’i’ odo? e che gent’è che par nel duol sì vinta?". 33 Ed elli a me: "Questo misero modo tegnon l’anime triste di coloro che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. 36 Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. 39 Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli". 42 E io: "Maestro, che è tanto greve a lor che lamentar li fa sì forte?". Rispuose: "Dicerolti molto breve. 45 Questi non hanno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa, che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte. 48 Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa". 51 E io, che riguardai, vidi una ’nsegna che girando correva tanto ratta, che d’ogne posa mi parea indegna; 54 e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. 57 Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. 60 Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d’i cattivi, a Dio spiacenti e a’ nemici sui. 63 Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch’eran ivi. 66 Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto. 69
La prima impressione di Dante sull’Inferno è uditiva: sospiri, pianti e urla risuonano nell’aere sanza stelle (cioè senza cielo), per i quali Dante si commuove subito iniziando a piangere: in un crescendo di suoni egli ascolta parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, colpi di mano percosse… il tutto in una coltre atmosferica sanza tempo tinta, cioè dove non si riconosce nemmeno se è giorno o è notte, come in una tempesta di sabbia (come la rena quando turbo spira). Rispetto alla descrizione dei suoni dell’Averno dell’Eneide (VI 557-558) quella di Dante, sebbene chiaramente ispirata da essa, focalizza molto di più sullo sconforto che tali sensazioni procurano su Dante quale uomo vivo, piuttosto che sulla semplice registrazione esteriore di Virgilio.
Con la testa piena di error (di dubbi) Dante chiede allora a Virgilio che cosa siano questi suoni, questa gente che sembra così vinta dal dolore. Questo verso è ambiguo perché alcune versioni riportano anche “orror”; quindi se fosse buona la seconda evidentemente Dante aveva la testa piena di orrore.
Virgilio inizia così a spiegare il luogo nel quale si trovano, l’Antinferno dove sono punite miseramente le tristi anime che vissero sanza ‘nfamia e sanza lodo. Essi sono i cosiddetti ignavi, anime che in vita non operarono né il bene né il male per loro scelta di vigliaccheria.
Tra questi uomini vi sono gli angeli che, al tempo della rivolta di Lucifero, non presero né la parte di Lucifero né quella di Dio, ma si ritirarono in disparte estraniandosi dai fatti della rivolta: un’invenzione puramente dantesca, ispirata forse da leggende popolari, che non ha echi precedenti né scritturali né nella patristica (per lo meno in quella pervenutaci).
Questi dannati sono cacciati dal cielo, perché ne rovinerebbero lo splendore, e nemmeno l’inferno li vuole perché i dannati potrebbero gloriarsi rispetto ad essi, avendo essi almeno scelto, nella vita, da che parte stare, sia pure nel male.
Dante chiede anche perché essi si lamentino così forte e Virgilio gli risponde spiegando la loro pena: senza speranza di morire (terminando così il loro supplizio) essi hanno qui un’infima cieca vita che fa invidiar loro qualsiasi altra sorte; nel mondo non lasciarono alcuna fama, sdegnati anche da Dio (misericordia e giustizia)… Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
E mentre i due passano ignorandoli Dante descrive comunque la loro pena: essi inseguono una ‘nsegna (in senso militare, come una bandiera, da alcuni interpretata, visto il tono del canto, come un cencio senza valore), che corre senza posa; sono una schiera così grande che Dante non avrebbe nemmeno mai creduto che la morte ne avesse mai uccisi così tanti.
Per contrappasso, sono condannati per l’eternità a correre nudi, tormentati da vespe e mosconi che rigano di sangue il loro corpo, ed ai loro piedi un tappeto di vermi che si nutrono delle loro lacrime miste al sangue (vv. 65-69): la pena è più degradante che dolorosa e Dante insiste sulla loro meschinità: loro che mai non fur vivi.
Con la tecnica del contrappasso, qui trovata per la prima volta, Dante riesce a creare immagini reali e rende al lettore i sentimenti che affiorano lenti fra le righe della Commedia, inquadrando l’opera della giustizia divina. Interessante notare come questi peccatori siano disprezzati sia da Virgilio, che dice a Dante di passare senza degnarli di uno sguardo, sia dai diavoli che non li accettano neanche nel vero e proprio inferno.
Il disprezzo del poeta verso questa categoria di peccatori è massimo e completo, perché chi non seppe scegliere in vita, e quindi schierarsi da una parte o dall’altra, nella morte resterà un paria costretto a rincorrere un bandiera che non appartiene a nessun ideale. Tanto accanimento si spiega, dal punto di vista teologico, perché la scelta fra Bene e Male, deve obbligatoriamente essere fatta, secondo la religione cattolica. Dal punto di vista sociale, inoltre, nel Medio Evo lo schieramento politico e la vita attiva all’interno del Comune erano quasi sempre considerate tappe fondamentali ed inevitabili nella vita di un cittadino. Se l’uomo è un essere sociale, chi si sottrae ai suoi doveri verso la società non è degno, secondo la riflessione dantesca, di stima ed ammirazione.
Il gran rifiuto
« Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. »
Dante nota tra le anime “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, ma non lo nomina: questa persona potrebbe essere identificata come Celestino V, Giano della Bella, Esaù, Ponzio Pilato o anche un personaggio puramente simbolico. A sostegno della prima ipotesi si considera che Dante lo riconosce spontaneamente, quindi è facile che si tratti di un suo contemporaneo. Inoltre quando egli cita persone senza nominarle spesso è perché erano così famose da essere sufficiente un’allusione a inquadrarle. Infatti i principali commentatori suoi contemporanei indicano Celestino V come artefice del “gran rifiuto” e anche i miniaturisti dipingevano di solito una figura con la tiara nella schiera.
A partire da Benvenuto da Imola però si mise in dubbio questo riconoscimento, che da quel momento in poi perse quasi totalmente il favore dei critici danteschi, anche per il cambiamento di valutazione circa Pietro da Morrone a partire dall’apologia che ne fece Francesco Petrarca nel De vita solitaria; inoltre nel 1313 Celestino V fu santificato, quando Dante era ancora in vita. Nonostante ciò Dante forse potrebbe aver voluto sottolineare comunque il suo giudizio negativo contro Celestino e contro Papa Clemente V che l’aveva beatificato, lasciando comunque l’indeterminatezza del nome mancante.
Ad oggi la critica non sembra identificare il personaggio in modo concorde, alcuni ritengono invece che Ponzio Pilato sia di gran lunga il più probabile a causa della gravità del suo peccato, la viltà di non salvare Gesù Cristo dalla crocifissione, tanto da rimanere egli proverbiale per il suo pavido comportamento[1].
[bibl]Inferno – Canto terzo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_terzo&oldid=44047539 (in data 5 novembre 2011).
[/bibl]