Canto XXX Inferno – (vv 46-90) – I falsari di moneta: maestro Adamo

Testo e commento del Canto XXX dell’Inferno (versi 46-90)- I falsari di moneta: maestro Adamo

E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati. 48

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.51

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia, 54

faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte. 57

"O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo",
diss’elli a noi, "guardate e attendete 60

a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. 63

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,66

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.69

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga. 72

Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai. 75

Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista. 78

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ ho le membra legate? 81

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero, 84

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha. 87

Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia". 90


Dante guarda allora ad altri mal nati e ne nota uno che gli ricorda un liuto (strumento a corde allora piuttosto raro quanto lo è oggi, che fu popolare nel XV secolo) con le gambe, perché l’idropisia che lo affligge gli modifica la pancia, che è ingigantita, mentre il viso è magro e smunto e le labbra sono aperte grottescamente come fa il tisico (l’etico), che le tiene arricciate per la sete una in su e una in giù (da notare il linguaggio tecnico di Dante, che era stato iscritto all’Arte dei Medici e Speziali a Firenze).
L’episodio che segue, che ha per protagonista Maestro Adamo, come egli stesso si presenterà al verso 61, è tra i brani più eterogenei per stile e emozioni di tutto l’Inferno di Dante. Prima grottesco, nella descrizione del suo stato fisico, poi si nota il suo dolore attraverso la descrizione delle labbra; Egli si rivolge ai due pellegrini con sofferenza citando un passo biblico (“guardate e attendete” [se esiste un dolore come il mio], Libro delle Lamentazioni I, 12), indice di tristezza e sofferenza priva di qualsiasi volgarità; poi il suo diventa nostalgico, perché se in vita ebbe tutto ora non può ottenere nemmeno un goccio d’acqua, invocazione seguita da una malinconica rievocazione del Casentino e dei suoi ruscelletti freschi e morbidi. La rievocazione del luogo dove visse (presso il Castello di Romena) subito riporta alla mente il suo peccato, quello di falsario di fiorini ai quali toglieva tre dei ventiquattro carati d’oro sostituendoli con mondigia cioè immondizia, metalli non nobili. Anche la reivocazione del suo corpo “arso” è malinconica, ma subito il sentimento si tramuta in odio verso coloro che lo indussero a peccare, i fratelli dei Conti Guidi di Romena, Guido, Alessandro e Aghinolfo, verso i quali Mastro Adamo non sa cosa darebbe per vederli all’Inferno, dovesse anche rinunciare a placare la sua sete. Con tono patetico dice che se potesse muoversi anche di un’oncia (pochi centimetri) ogni cento anni per raggiungerli lo avrebbe già fatto, ma è inchiodato al suolo.
Nel suo discorso dice anche che la bolgia è lunga undici miglia fiorentine e che è larga non meno di mezzo: assieme alla notazione della bolgia precedente come lunga 22 alcuni hanno cercato di risalire alle dimensioni dell’Inferno immaginato da Dante, ma i risultati erano così enormemente assurdi (più di quel che Dante indica come raggio della Terra nel Convivio, che per attraversarlo nei tempi indicati qua e la nella narrazione egli si sarebbe dovuto spostare a circa 450 km/h) che oggi si preferisce pensare a numeri prettamente simbolici o necessari a dare un senso di realtà al viaggio immaginario senza essere però ineccepibilmente calcolabili. Galileo ne concluse che l’Inferno è sempre insondabile, “nelle sue tenebre offuscato”.
[/bibl] Inferno – Canto trentesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_trentesimo&oldid=38300949 (in data 18 novembre 2011).[/bibl].

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