Canto XV Inferno – (vv 100-124) – Chierici e letterati
Testo e commento del Canto XV dell’Inferno (versi 100-124) – Chierici e letterati
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi. 102Ed elli a me: "Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono. 105In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci. 108Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama, 111colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi. 114Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione. 117Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio". 120Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro 123quelli che vince, non colui che perde.
Dante allora, continuando a camminare accanto a Brunetto, gli chiede di mostrargli alcuni dei suoi compagni di pena più noti e importanti. Brunetto, che specifica come non possa dirli tutti per questioni di tempo, dice che si tratta di letterati e uomini di Chiesa (almeno quelli della sua schiera), tutti macchiatisi dello stesso "lercio" peccato: Prisciano di Cesarea, grammatico di Costantinopoli, Francesco d'Accorso, letterato bolognese e colui che fu trasferito dal "servo dei servi" dall'Arno al Bacchiglione, dove vi morì: un rebus per indicare il vescovo di Firenze Andrea de' Mozzi, trasferito da Firenze a Vicenza (vengono citati i fiumi delle due città) da Bonifacio VIII (che si era dato l'appellativo pontificale di "servo dei servi"). In questo caso il nome viene taciuto perché probabilmente lo scandalo del vescovo "snaturato" fu così grande che anche un'allusione del genere doveva sembrare ben esplicita. Dante ebbe esperienza diretta di questo clamore in gioventù, e solo verso il vescovo egli usa parole sprezzanti (se hai "tal tigna brama" di vederlo... "lasciò li mal protesi nervi") rispetto a tutti gli altri sodomiti.
Brunetto vorrebbe dire di più, ma la sua permanenza e il suo parlare ("'l venire e 'l sermone") non possono essere più lunghi, perché già arriva un'altra schiera in corsa che alza fumo sul sabbione, con i quali non deve mescolarsi. Gli raccomanda il suo Tesoro (il suo libro), "nel qual io vivo ancora" e niente più chiede. Si gira e scappa via, come quelli che a Verona corrono per il palio dietro a un drappo verde[1]; e pareva uno di quelli che vincono, non un lento perdente. Con questa similitudine si chiude il canto. Nel prossimo Dante incontrerà altri tre fiorentini della schiera che si sta avvicinando.
Contrappasso
I dannati sono costretti a camminare continuamente, senza alcuna sosta su sabbia infuocata e a subire sui loro corpi la violenza provocata dalla pioggia di fuoco che si abbatte su di loro. la legge del contrappasso è in parte per analogia e in parte per antitesi. Per analogia in quanto loro subiscono violenza sui loro corpi così come loro hanno fatto in vita contro i loro simili e contro la natura; questa tipo di violenza ora la subiscono infatti su tutto il corpo: a cominciare dalla pianta dei piedi (a causa della sabbia infuocata) fino al capo (a causa della pioggia di fuoco).
Mentre per antitesi possiamo vedere l'ulteriore pene che i dannati subiscono ogni volta che si fermano; essi devono rimanere sdraiati per cento anni. Dante mette in relazione questa sosta e la gloria terrena e dimostra come questa non sono nulla rispetto all'eternità.[bibl]Inferno - Canto quindicesimo, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Inferno_-_Canto_quindicesimo&oldid=40365213 (in data 11 novembre 2011).[/bibl]