Canto VI Purgatorio – (vv 76-151) – Apostrofe di Dante all’Italia
Testo e commento del Canto VI del Purgatorio (versi 76-151)- Apostrofe di Dante all’Italia
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! 78 Quell’anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa; 81 e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra. 84 Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode. 87 Che val perché ti racconciasse il freno Iustinïano, se la sella è vòta? Sanz’esso fora la vergogna meno. 90 Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, se bene intendi ciò che Dio ti nota, 93 guarda come esta fiera è fatta fella per non esser corretta da li sproni, poi che ponesti mano a la predella. 96 O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni, 99 giusto giudicio da le stelle caggia sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che ’l tuo successor temenza n’aggia! 102 Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto, per cupidigia di costà distretti, che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto. 105 Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! 108 Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura! 111 Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: "Cesare mio, perché non m’accompagne?". 114 Vieni a veder la gente quanto s’ama! e se nulla di noi pietà ti move, a vergognar ti vien de la tua fama. 117 E se licito m’è, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? 120 O è preparazion che ne l’abisso del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de l’accorger nostro scisso? 123 Ché le città d’Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene. 126 Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca, mercé del popol tuo che si argomenta. 129 Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l’arco; ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca. 132 Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo solicito risponde sanza chiamare, e grida: "I’ mi sobbarco!". 135 Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace e tu con senno! S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde. 138 Atene e Lacedemona, che fenno l’antiche leggi e furon sì civili, fecero al viver bene un picciol cenno 141 verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch’a mezzo novembre non giugne quel che tu d’ottobre fili. 144 Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume hai tu mutato, e rinovate membre! 147 E se ben ti ricordi e vedi lume, vedrai te somigliante a quella inferma che non può trovar posa in su le piume, 150 ma con dar volta suo dolore scherma.
L’imprevisto abbraccio tra Sordello e Virgilio, nato dalla sola consapevolezza di venire dalla stessa terra, suscita nel poeta un’energica ed amara apostrofe all’Italia del presente (definita serva, luogo di dolore, nave senza guida, bordello): in essa dominano guerre e contese anche fra gli abitanti di una stessa città. Dante esorta l’Italia a cercare lungo le sue coste e poi nell’entroterra se vi sia qualche luogo in cui regni la pace. Eppure Giustiniano aveva dotato l’Italia di leggi appropriate, ma nessuno esercita il giusto potere per farle applicare. Invece si appropriano abusivamente del potere temporale gli uomini di chiesa che non sanno guidare l’Italia, divenuta ormai un destriero ingovernabile. Manca l’autorità dell’imperatore, dato che Alberto I d’Asburgo e suo padre Rodolfo, tutti presi dalle lotte politiche in Germania, hanno trascurato il giardino dell’impero.
Dopo aver invocato una giusta punizione sul loro successore Arrigo VII di Lussemburgo, Dante con una violenta anafora invita l’imperatore a venire in Italia e a vedere città per città la devastazione portata dalle lotte civili. Giunge infine a interpellare Cristo stesso, chiedendogli se per caso il suo sguardo non sia rivolto altrove; o forse, aggiunge subito il poeta, in tutti questi mali è nascosto il seme di un futuro bene che però ancora non è comprensibile.
Dante conclude l’appassionata invettiva rivolgendosi direttamente a Firenze. Con sarcasmo presenta la sua città come se fosse immune da questi mali; in realtà in essa dominano la superficialità e l’irresponsabilità di cittadini che fanno a gara per avere cariche pubbliche senza capacità o preparazione. Firenze può vantarsi di superare Atene e Sparta, poiché fa leggi tanto sottili da durare a mala pena un mese. Il passato di Firenze caratterizzato da continua instabilità fa apparire la città simile ad un’ammalata che non riesce a trovare una posizione adatta al suo riposo. Quest’immagine di doloroso e costante movimento verrà poi ripresa da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi.
Analisi
Come già nell’Inferno e come poi nel Paradiso, il sesto canto è dedicato al tema politico.
Mentre nel sesto canto dell’Inferno Dante presenta, in un breve dialogo con Ciacco, Firenze divisa in fazioni e oggetto delle mire di papa Bonifacio VIII, il sesto canto del Purgatorio allarga la considerazione a tutta l’Italia, vista per di più in rapporto con le due massime istituzioni, Impero e Chiesa.
Sarà il sesto canto del Paradiso a coniugare l’attenzione sempre viva e polemica ai fatti contemporanei con un ampio excursus storico in cui si inserisce, a darne il significato autentico, la prospettiva provvidenzialistica.
Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio è l’invettiva all’Italia, la più lunga della Commedia nelle sue venticinque terzine. In questa, pronunciata dallo stesso Dante in seguito all’incontro con Sordello da Goito, l’Italia è paragonata ad una nave priva di guida (questo paragone è presente anche nel De Monarchia e nelle Epistole) e ad un cavallo privo di cavaliere (citando il Convivio) in quanto l’Imperatore non si cura di essa concentrando tutta l’attenzione sulla Germania. Per questo motivo sulla stirpe imperiale deve scendere la pena divina. Dante coglie l’occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle.
Alla fine dell’invettiva Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale.
Non bisogna trascurare il fatto che l’apostrofe inizia quasi alla metà del canto, dopo una preparazione graduale: dalla scena affollata dei morti violentemente che chiedono di essere ricordati nel mondo dei vivi, alla spiegazione dottrinale affidata a Virgilio, alla raffigurazione di un misterioso ed altero personaggio, all’improvviso incontro tra due “concittadini” divisi da circa tredici secoli di storia e tuttavia uniti dal semplice nome della loro città.
L’invettiva all’Italia (nonché al papa, all’imperatore, a Firenze) trae il suo vigore espressivo dall’uso intenso di figure retoriche: dalle numerose metafore che connotano l’Italia, alle esclamazioni, alle anafore dei vv. 106,109,112,115 e 130,133. Frequenti anche le personificazioni (Italia, Roma, Firenze) sulle quali si innestano domande o esortazioni. Evidente l’uso dell’ironia e del sarcasmo nelle terzine dedicate a Firenze, ma il canto, con l’immagine dell’inferma che cerca invano di calmare le sue sofferenze, si chiude su una nota dolente.
[/bibl]Purgatorio – Canto sesto, //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Purgatorio_-_Canto_sesto&oldid=43179520 (in data 21 novembre 2011).[/bibl].